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Una „razza mediterranea"?: Il dibattito antropologico sulla questione meridionale (1897–1907).

Cerro, Giovanni
In: Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, Jg. 102 (2022-11-01), Heft 1, S. 386-416
Online academicJournal

Una „razza mediterranea"?: Il dibattito antropologico sulla questione meridionale (1897–1907) 

This article reconstructs the anthropological debate on the Southern question, focusing on the decade between 1897 and 1907 and on three protagonists: the statistician and criminologist Alfredo Niceforo, the economist and politician Napoleone Colajanni and the anthropologist and psychologist Giuseppe Sergi. Sergi's theories on the Mediterranean „race", its African origin and role in the population and above all in the process of civilization of the European continent were used to support opposing positions: Niceforo referred to them to affirm the backwardness of the population of Southern Italy; Colajanni, by contrast, employed them to defend the dignity of the inhabitants of the South, against the advocates of the superiority and inferiority of different „races". The analysis of these discussions shows how anthropologists and ethnologists, playing on the delicate balance between „race" and „environment", contributed – in often contradictory ways – to the socio-political project of defining Italian national identity in the early decades after Unification.

Nota Desidero ringraziare Carlo Altini, Lutz Klinkhammer, Antonello La Vergata, Amedeo Osti Guerrazzi, Lucetta Scaraffia per l'incoraggiamento a scrivere questo articolo e per i loro consigli. Sono inoltre riconoscente agli anonimi revisori di QFIAB per le loro indicazioni e a Susanne Wesely per la cura con cui ha seguito l'intero lavoro redazionale.

Introduzione

Alle discussioni che si svolsero in Italia sul tema della questione meridionale tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento gli antropologi di ispirazione lombrosiana diedero un contributo rilevante, ancora però in larga parte inesplorato. Molti di loro si interrogarono sulle ragioni del divario tra Nord e Sud, mescolando, non senza incoerenze e contraddizioni, discorsi sulle „razze", indagini criminologiche e analisi sociopolitiche. Nell'articolo si intende ricostruire un momento di tale dibattito, concentrandosi sul decennio compreso tra il 1897 e il 1907 e su tre protagonisti, tutti e tre siciliani: lo statistico e criminologo Alfredo Niceforo, l'economista e uomo politico Napoleone Colajanni e l'antropologo e psicologo Giuseppe Sergi.

La scelta delle due date non è casuale. Il punto di avvio del dibattito fu, infatti, la pubblicazione nel 1897 del volume di Niceforo „La delinquenza in Sardegna", in cui l'elevato tasso di criminalità di una precisa zona dell'isola era imputato principalmente a fattori „razziali". Questa spiegazione, presto usata da Niceforo anche per comprendere il sottosviluppo di tutta l'Italia meridionale, era rifiutata da Colajanni, secondo il quale erano le condizioni sociali, economiche e politiche a determinare le differenze tra il Nord e il Sud. Dal canto suo, Sergi proponeva una terza via: pur non disconoscendo la centralità della variabile etnica, sottolineava l'importanza dell'ambiente. Il manifesto di questa soluzione intermedia sarà il libro „La Sardegna", scritto da Sergi nel 1907 e interpretato da molti lettori contemporanei come una „risposta" a Niceforo.

Proprio Sergi fu il vero centro di questo dibattito, dal momento che le sue teorie sulla stirpe mediterranea, sulla sua provenienza africana e sul suo ruolo nel popolamento e soprattutto nel processo di civilizzazione del continente europeo furono usate da una fazione e dall'altra: Niceforo se ne servì per sostenere l'arretratezza della popolazione dell'Italia meridionale (i meridionali erano impulsivi e inclini al crimine proprio a causa della loro origine africana); al contrario, Colajanni vi fece ricorso per difendere la dignità degli abitanti del Sud, adoperando contro i teorici delle „razze" i loro stessi argomenti (se i meridionali appartenevano alla stirpe mediterranea, al pari degli artefici delle grandi civiltà del passato, come si poteva sostenerne l'inferiorità?).

Una discussione sulla questione meridionale si trasformò così in qualcos'altro. Anzitutto, in uno scontro, interno dell'antropologia criminale italiana, tra due generazioni. Da una parte, il „vecchio" Sergi, che, nato nel 1841, aveva partecipato al processo di unificazione nazionale (nel 1860 si era addirittura unito alle truppe garibaldine nella battaglia di Milazzo) e rivendicava costantemente il proprio legame con l'esperienza risorgimentale. Dall'altra parte, il „giovane" Niceforo, che era nato nel 1876 (anno in cui apparve la prima edizione del lombrosiano „Uomo delinquente" e in cui si ebbe l'avvicendamento tra la Sinistra e la Destra storica al governo) e si era formato nell'Italia crispina. In secondo luogo, il dibattito antropologico sulla questione meridionale fu motivo di scontro su un problema che rimase cruciale per tutta l'età del positivismo e anche oltre, ovvero il rapporto tra nature e nurture, di cui per primo aveva parlato Francis Galton alla metà degli anni Settanta dell'Ottocento nei suoi studi dedicati al genio e ai gemelli. Del resto, il delicato equilibrio tra l'influenza dell'eredità e quella dell'ambiente costituiva il fondamento di discipline che erano da poco nate, come appunto l'eugenica galtoniana, e altre che proprio allora si andavano consolidando, quali l'antropologia fisica e l'antropologia criminale.

Alfredo Niceforo: il primato della „razza"

Nella notte tra il 13 e il 14 novembre 1894, un centinaio di uomini armati penetrò nel comune di Tortolì, nell'Ogliastra, per depredare l'abitazione di un ricco proprietario locale, Vittorio Depau, che in quei giorni si trovava per affari a Cagliari. Si trattava di una tipica „bardana", nome con il quale si indicavano, soprattutto in Barbagia e Gallura, le razzie compiute da bande di predoni, che accerchiavano un villaggio allo scopo di saccheggiare le residenze dei possidenti. Nell'assalto di Tortolì morirono tre persone: uno dei banditi, a cui nella fuga i compagni tagliarono la testa per evitare che fosse riconosciuto, un brigadiere dei carabinieri e uno dei servitori della villa di Depau. L'eco dell'avvenimento fu tale che il governo Crispi decise di avviare già nel dicembre un'inchiesta sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza della Sardegna, affidandone l'incarico all'ex garibaldino Francesco Pais Serra, che proprio in quel periodo era impegnato nella campagna elettorale sull'isola (nel 1895 sarà eletto deputato nel collegio di Ozieri). La relazione che Pais Serra ricavò dall'inchiesta – relazione pubblicata nell'agosto 1896, quando il governo Crispi era già caduto, a seguito della sconfitta di Adua – conteneva uno studio minuzioso dell'economia sarda e un'analisi altrettanto dettagliata delle forme della criminalità isolana. Il lavoro svolto da Pais Serra portò, inoltre, all'elaborazione nel 1897 della prima legislazione speciale per la Sardegna.

Doveva essere ancora vivo nella popolazione sarda il ricordo della bardana di Tortolì quando, nel 1895, l'allora diciannovenne Alfredo Niceforo si imbarcò per l'isola, insieme allo scrittore di origine sarda per parte paterna Paolo Orano, più vecchio di lui di un anno. La spedizione era stata commissionata dalla Società romana di antropologia, fondata e diretta da Sergi, e dalla Società geografica italiana. Lo scopo era raccogliere materiale sui pigmei sardi. Dagli studi craniologici compiuti durante la missione, Niceforo trasse nel dicembre dello stesso anno una nota dal titolo „Le varietà umane pigmee e microcefaliche della Sardegna", pubblicata sugli „Atti della Società romana di antropologia"; nota che gli valse la nomina a socio ordinario della stessa Società. Nell'articolo veniva confermata la tesi di Sergi secondo la quale i pigmei che popolavano l'isola erano di origine africana e costituivano una varietà umana vera e propria, e non una degenerazione patologica del tipo umano „normale" dovuta all'effetto di condizioni ambientali avverse, come pensava Rudolf Virchow.

Il viaggio fu anche l'occasione per comporre un libro, „La delinquenza in Sardegna", appunto, che avrebbe visto la luce nel 1897 (e in cui Niceforo attingeva a piene mani dai dati raccolti nella relazione di Pais Serra). Il tema principale del volume non riguardava affatto la questione dell'origine e della natura dei pigmei, ma il rapporto tra appartenenza a un dato gruppo etnico e predisposizione alla criminalità: vi erano „razze" umane più propense al crimine di altre? Le riflessioni proposte da Niceforo su questo argomento avrebbero suscitato dibattiti e controversie non solo nella comunità scientifica, ma anche nella pubblicistica. La tesi di Niceforo era semplice e ardita a un tempo: la maggior parte dei crimini commessi in Sardegna – tra questi, l'omicidio, il furto, la grassazione, la violenza, l'usurpazione, il danneggiamento e l'incendio – si concentravano in un territorio ben determinato, compreso tra il Nuorese, l'alta Ogliastra e Villacidro, da lui ribattezzato „Zona delinquente". Le cause di tale spiccata criminalità erano di due tipi: cause „individuali", dovute cioè alla particolare costituzione antropologica, fisiologica e psicologica dei suoi abitanti; e cause „d'ambiente", vale a dire legate a specifiche condizioni esterne.

Per quanto riguardava l'analisi delle cause individuali, Niceforo operava anzitutto un'originale, e poco lineare, combinazione tra gli studi di Lombroso e le ricerche di Sergi. Da un lato, si richiamava alla nozione lombrosiana di atavismo, inteso come la ricomparsa improvvisa negli esseri umani di caratteri fisici (ma che avevano una diretta implicazione psichica) presenti nei progenitori o negli animali e in loro considerati non patologici. Uno dei casi di atavismo più importanti, e soprattutto più gravidi di conseguenze per il futuro, fu quello che nel dicembre del 1870 Lombroso – allora primario del reparto di malattie nervose dell'ospedale Sant'Eufemia di Pavia – riferì di aver individuato nel cranio del brigante calabrese Giuseppe Villella: l'autopsia rivelò che tra i due emisferi cerebrali, al posto di una cresta occipitale, si trovava una fossetta. La presenza di questo particolare anatomico, tipico dei lemuri, delle scimmie platirrine e dei roditori, ma assente in tutte le scimmie superiori e in molte di quelle inferiori, denotava un arresto di sviluppo allo stadio fetale, data la corrispondenza ammessa da Lombroso tra la conformazione cranica e l'evoluzione del cervello. Ciò permise di stabilire un nesso tra delinquenza e atavismo e di affermare che nei criminali riapparivano caratteri primitivi e animaleschi: era l'atto di nascita dell'antropologia criminale in Italia. Secondo il resoconto dello stesso Lombroso e la ricostruzione successiva della figlia Gina, fu una vera e propria „rivelazione". Oggi, sulla base delle contraddizioni che caratterizzano i diversi resoconti lombrosiani, gli studiosi negano che il racconto abbia un carattere di veridicità e ritengono che si sia trattato di un discorso costruito a posteriori per fornire una legittimazione „scientifica" alla nuova „disciplina". Richiamandosi proprio a queste idee lombrosiane, Niceforo sosteneva che gli abitanti della „Zona delinquente" erano affetti da una forma di atavismo insieme fisico, psichico, morale e sociale: in loro si ripresentavano i tratti fisici delle popolazioni nomadi premoderne, così come i loro comportamenti aggressivi, bellicosi e vendicativi. Le bardane non ricordavano forse le antiche razzie?

Dall'altro lato, Niceforo faceva riferimento alle ricerche antropologiche che Sergi conduceva a partire dalla prima metà degli anni Ottanta dell'Ottocento e che, dopo l'introduzione del metodo di individuazione dei gruppi etnici sulla base della forma del cranio, avevano conosciuto un notevole avanzamento. Nel momento in cui il volume di Niceforo si dava alle stampe, Sergi aveva già posto le basi della teoria della stirpe mediterranea, illustrandone le linee fondamentali nello studio intitolato „Origine e diffusione della stirpe mediterranea" (1895). Secondo Sergi, la civiltà in Europa era stata importata da popoli originari dell'Africa orientale, che dal Neolitico si erano diffusi nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente. La civilizzazione mediterranea era stata caratterizzata da tre fasi di sviluppo – minoica e micenea, ellenica e latina – e aveva raggiunto il suo culmine con l'espansione imperialistica di Roma. A differenza di quanto sostenevano Theodor Poesche e Karl Penka, gli ariani o indoeuropei non solo non erano identificabili con il tipo germanico dolicocefalo e biondo (anch'esso per Sergi appartenente alla stirpe mediterranea), ma erano sopraggiunti in Europa solo a partire dall'età del bronzo, distruggendo i prodotti della fiorente civiltà mediterranea con la loro barbarie e la loro violenza. Provenienti dall'Asia centrale, le popolazioni arie (organizzate nei tre gruppi dei protocelti, protogermani e protoslavi) avevano invaso l'Italia settentrionale e centrale, fino a quando la loro avanzata era stata fermata dagli etruschi, prima, e dai romani, poi. Questa ricostruzione, secondo Sergi, trovava conferma nello studio dei reperti preistorici della valle del Po: le varietà craniche più antiche (di forma ellissoide, ovoide e pentagonoide) attestavano la presenza dei mediterranei dolicocefali, mentre quelle più recenti (di tipo cuneiforme, sferoide e platicefala) erano tipiche degli ariani brachicefali. L'antica sovrapposizione tra mediterranei e arii era ancora visibile nelle differenze fisiche, psicologiche e comportamentali che esistevano tra gli abitanti del Nord e gli abitanti del Sud dell'Italia: la popolazione settentrionale, influenzata dalle invasioni indoeuropee, aveva un profondo senso della comunità e del dovere ed era incline al lavoro (qui agiva evidentemente una „libera" rilettura delle descrizioni delle tribù germaniche presenti nella „Germania" di Tacito); la popolazione meridionale, invece, di origine mediterranea, era individualista e apatica ma al contempo creativa e geniale (qui il riferimento implicito era alle immagini dell'Italia del Sud lasciate dai viaggiatori europei del Grand Tour tra Seicento e Ottocento).

Niceforo accettava la concezione sergiana delle „due Italie", abitate da due stirpi differenti, ampliandone però il campo di applicazione e aggiungendo un ulteriore, decisivo tassello, ovvero la diversa predisposizione dei due gruppi umani alla criminalità. Al Nord, dove prevalevano i discendenti della stirpe celtica o aria, sobria nei costumi e fedele al principio di autorità, i crimini erano meno numerosi che al Sud, dove invece vivevano i discendenti della stirpe mediterranea, che avevano ereditato i propri spiccati istinti delinquenziali dalle tribù africane, alle quali erano genealogicamente legate. La provenienza africana dei mediterranei, che fino a quel momento aveva ancora in Sergi un tono neutro, assumeva dunque con Niceforo una connotazione decisamente negativa.

Il quadro delineato da Niceforo era però ancora più complesso di quello appena descritto. Oltre all'atavismo e all'eredità africana, vi era anche la degenerazione, concetto che era stato introdotto nel 1857 in campo psichiatrico dall'alienista francese Bénédict-Augustin Morel per indicare una „deviazione malata dal tipo normale dell'umanità" e che in Italia era stato poi oggetto, nel 1889, di un influente studio proprio di Sergi. Mentre l'atavismo indicava un processo non necessariamente patologico, la degenerazione identificava un processo di per sé morboso. Affermando che i sardi erano affetti da atavismo, ma anche degenerati, Niceforo confondeva quindi concetti all'origine molto diversi tra loro. Lo sfondo su cui Niceforo inseriva tali considerazioni era costituito dall'idea – tipicamente positivistica – secondo la quale le società umane erano governate dalle stesse leggi dell'evoluzione degli organismi viventi (qui i richiami erano soprattutto a Herbert Spencer e a Charles Letourneau). Al pari degli animali, infatti, anche le comunità umane attraversavano diverse fasi di crescita, a ognuna delle quali corrispondeva un differente livello di sviluppo. Non tutte, però, riuscivano a raggiungere il grado più elevato, vale a dire a perfezionarsi in modo compiuto: la „Zona delinquente", ad esempio, si era arrestata lungo questo cammino ed era ora simile a „una grande scoria che galleggia sulle acque luminose di un grande oceano, scoria ammalata e vecchia, residuo di un mondo scomparso". L'assenza di mescolanze etniche e la resistenza alle dominazioni esterne, che si erano succedute nel corso del tempo, l'avevano resa refrattaria a qualsiasi cambiamento. Riprendendo la metafora del corpo sociale malato, anch'essa cara ai sociologi e agli antropologi di fine secolo, Niceforo denunciava il pericolo che dalla „Zona delinquente" potessero diffondersi „numerosi bacteri patogeni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage". Erano così poste le basi di quella che è stata definita la „patologizzazione della questione meridionale": non soltanto la Sardegna, ma l'intero Sud e i suoi abitanti erano considerati malati bisognosi di cure non tanto perché si dovesse assicurare il loro risanamento, quanto per impedire che la loro „malattia" potesse contagiare le aree sane del Paese.

Al fattore etnico, su cui ha tanto insistito la letteratura critica, Niceforo affiancava il fattore ambientale. L'individuo e l'ambiente, egli scriveva, „si comprendono e si compenetrano l'un l'altro come le due ruote dentate di una macchina". Per Niceforo, sull'elevato tasso di criminalità sardo incidevano anche il latifondismo, che impediva qualsiasi progresso in campo agricolo e riproduceva forme di schiavismo; la mancanza di una rete ferroviaria che consentisse con facilità gli spostamenti e i traffici di prodotti e merci; le condizioni disastrose delle strade, che ostacolavano la comunicazione tra parti diverse dell'isola; la pessima amministrazione della giustizia; la disorganizzazione delle forze dell'ordine; la mancanza di capitali di investimento da parte di privati; il basso livello dei salari a fronte dell'eccessiva gravosità delle imposte. Sembrerebbe, dunque, che Niceforo non ignorasse affatto l'apporto dell'ambiente. Tuttavia, egli riteneva che le condizioni socioeconomiche, per quanto rilevanti, non potessero considerarsi una causa determinante per l'insorgere della criminalità, in Sardegna come altrove: „Pur accettando pienamente le dottrine del Marx", affermava, „noi non estenderemo il fattore economico a unica causa della patologia criminosa, noi riteniamo che esso abbia larga ed efficace influenza, ma non unica, sulla dinamica del delitto". Era soprattutto l'omicidio, secondo Niceforo, che non poteva essere spiegato senza tener conto della „razza".

Che cosa fare, dunque? Non potendo agire direttamente sulla costituzione degli abitanti, giudicata ormai irriformabile, occorreva intervenire sul piano politico, abbattendo il centralismo imposto dallo Stato unitario. La classe dirigente liberale era infatti accusata da Niceforo di governare l'Italia come se le condizioni delle diverse regioni del paese fossero identiche, quando in realtà, le nazioni, così come gli organismi viventi, erano entità disomogenee, non formate da un'unica grande cellula, ma da un complesso di cellule tra loro differenti. Riservare a tutte il medesimo trattamento era una „follia". Non rimaneva che promuovere un modello federalistico su base regionale.

Si può notare, seppur incidentalmente, che un anno prima di Niceforo, anche il suo compagno di viaggio sull'isola, Paolo Orano, aveva pubblicato un volume sulla „Psicologia della Sardegna" (1896), in cui individuava le cause dell'arretratezza sarda tanto nei caratteri di „razza" quanto nelle cause ambientali, climatiche e sociali: i mali che affliggevano l'isola erano, da una parte, l'ozio, l'apatia, la predisposizione al brigantaggio, la religiosità superstiziosa e l'attaccamento alle tradizioni dei suoi abitanti, dall'altra, l'analfabetismo, la burocrazia eccessiva e la mancanza di collegamenti stradali, ferroviari e postali. Al pari di Niceforo, durante il suo viaggio in Sardegna, Orano era rimasto colpito dal tasso di delinquenza della zona del Nuorese, da lui denominata „scuola del delitto", in cui anche „i buoni diventano cattivi". Per debellare la criminalità, egli invocava un energico intervento militare da parte del governo, che avrebbe dovuto inviare in quelle terre un intero reggimento: „Il nuorese deve essere intimorito. È così che si fa con i selvaggi; bisogna far sentire loro il peso della forza, per Dio!; opporre alla lama del bandito le mille baionette del reggimento, le palle del Wetterly."

Tornando a Niceforo, il tema delle „due Italie", solo accennato nella „Delinquenza in Sardegna", era trattato più diffusamente l'anno successivo, nel 1898, nel volume l'„Italia barbara contemporanea", dove non era più solo la „Zona delinquente" sarda, ma tutta la parte meridionale della penisola a essere qualificata come un „anacronismo vivente". Facendo proprie alcune considerazioni lombrosiane, Niceforo ammetteva che la nazione era unita solo a livello politico, mentre, da tutti gli altri punti di vista, si presentava come „un vasto mosaico a mille tinte e sfumature". Per descrivere le differenze tra le „due Italie", Niceforo si fondava principalmente su dati statistici, mostrando soprattutto come il tasso di analfabetismo e quello di mortalità fossero più alti nell'Italia meridionale che in quella settentrionale. Soltanto il numero dei suicidi mostrava un andamento opposto, spiegabile con il fatto che questo era direttamente proporzionale al grado di civilizzazione raggiunto da una società: più evoluta era una comunità, più accentuata era la „sensibilità" dei suoi abitanti e di conseguenza più elevato il numero di coloro che sceglievano la morte volontaria. Per quanto riguarda la criminalità, Niceforo riprendeva una distinzione messa a punto da Guglielmo Ferrero (che sarebbe divenuto genero di Lombroso, avendo sposato nel 1901 la figlia Gina), definendo l'Italia settentrionale una „civiltà a tipo di frode" e l'Italia meridionale una „civiltà a tipo di violenza". La delinquenza del Nord era tipica del mondo moderno: lì la lotta per la vita si combatteva con l'astuzia, con l'inganno e con il ricorso spregiudicato al denaro e alla corruzione, quasi mai con le armi. Prevaleva dunque una „criminalità evolutiva", di cui era un esempio Tullio Hermil, il ricco e raffinato intellettuale che nell'„Innocente" di Gabriele D'Annunzio si macchia di un infanticidio. Al Sud, invece, aveva attecchito la „criminalità atavica", tipica delle società primitive e selvagge e incarnata dalla figura di Jacques Lantier, la „bestia umana" protagonista dell'omonimo romanzo di Émile Zola: l'omicidio, il furto e lo stupro erano i reati più diffusi e il potere e la ricchezza erano conquistati con la forza, il ricatto e l'intimidazione. Ecco perciò le ragioni per le quali al Sud avevano trovato terreno fertile camorra, mafia e brigantaggio. In conclusione, Niceforo ribadiva la necessità di mitigare „l'accentramento di ferro che ci soffoca" e di battersi per una particolare forma di federalismo: agli abitanti dell'Italia del Nord bisognava concedere libertà e autonomia; al Sud, invece, vi era bisogno di „un'azione energica e qualche volta dittatoriale" per strappare dalle tenebre quelle „società ancora bimbe e primitive".

Napoleone Colajanni: la preminenza dell'ambiente

Il volume di Niceforo sulla „Delinquenza in Sardegna" fu ben accolto dai principali esponenti della scuola di antropologia criminale. Nella prefazione, Ferri elogiava il volume come „uno dei saggi più completi di sociologia criminale" mai scritti e come un esempio di quella „sociologia socialista", in cui si esprimeva „l'indirizzo biologico e sociologico insieme". Malgrado alcuni aspetti avrebbero potuto essere maggiormente approfonditi, Ferri riteneva che la trattazione di Niceforo fosse il prodotto „della fecondità teorica e pratica portata nel campo della criminologia dal metodo sperimentale e di osservazione della scuola positiva". In un articolo apparso sul „Corriere della Sera" nell'ottobre del 1897, Lombroso definiva Niceforo „uno dei più giovani, ma più promettenti pensatori nostri" e ribadiva l'importanza della „razza" come causa di delinquenza, insieme alle condizioni socioeconomiche e al clima. Qualche mese prima, sul „Secolo", Ferrero aveva consigliato la lettura della „Delinquenza in Sardegna" a quanti erano interessati a conoscere veramente che cosa era l'Italia, „quella degli Italiani, non quella degli uomini politici". Nonostante lo sfoggio di erudizione scientifica e una certa verbosità, che si potevano perdonare a un „giovane d'ingegno", il libro aveva il merito di raccogliere un „ricco materiale di osservazioni personali e di riflessioni interessanti" e di rivelare che in Italia esistevano popolazioni „la cui civiltà non supera quella delle tribù dei pastori abissini" o delle „tribù arabe anteriori a Maometto". Ancora nel 1903, Enrico Morselli e Sante De Sanctis, nel volume dedicato al caso del brigante calabrese Giuseppe Musolino, riconosceranno nell'insistenza di Niceforo sulla correlazione tra „razza" e criminalità „la più diretta risposta ai sociologi esageratamente marxisti, che pretendono ridurre tutti i fatti umani a conseguenze dirette del fattore socio-economico, e negano ogni azione al fattore antropologico".

Tuttavia, il libro di Niceforo suscitò anche numerose proteste, soprattutto sulla stampa sarda, come dimostra l'intensa campagna in difesa dell'isola e dei suoi abitanti condotta dal quotidiano sassarese „La Nuova Sardegna", espressione dello schieramento repubblicano. A livello nazionale, la discussione fu animata soprattutto da Napoleone Colajanni, che pure era legato a Niceforo da un rapporto di amicizia e di collaborazione intellettuale che resisterà negli anni, al di là delle polemiche tra i due. Anche Colajanni ammetteva l'esistenza di una disparità di condizioni tra il Nord e il Sud del Paese e riteneva che il primo passo per risolvere il problema dell'inferiorità del Mezzogiorno consistesse nell'instaurare una repubblica federale basata sul decentramento e sull'autogoverno regionale. La richiesta del federalismo è un punto – probabilmente l'unico – che accumuna tanto gli studiosi favorevoli a Lombroso quanto coloro che lo avversavano. L'arretratezza del Sud non era, però, per Colajanni dovuta a un carattere di „razza". Del resto, già nel 1885, occupandosi del problema della delinquenza in Sicilia, la sua regione di origine, Colajanni aveva sostenuto, con Filippo Turati, che il delitto era „il prodotto delle condizioni sociali ed economiche" dell'isola, tra le quali la diffusione del latifondo, l'assenza di piccole industrie e di istituti di credito, la scarsa istruzione del popolo, il malgoverno dei Borbone e l'accentramento dello Stato unitario, e non di una presunta predisposizione al crimine del popolo siciliano.

Dopo l'uscita della „Delinquenza in Sardegna", Colajanni prendeva ancora una volta le difese degli abitanti dell'Italia meridionale in una serie di articoli apparsi sulla „Rivista popolare", da lui fondata e diretta, e poi raccolti in un volumetto dal titolo eloquente, „Per la razza maledetta" (1898). Prendendo a pretesto il lavoro di Niceforo, definito il „lombrosiano ultimo venuto", Colajanni ne approfittò per muovere un attacco ai metodi dell'antropologia criminale e alla leggerezza con la quale essa invocava quella „forza misteriosa" chiamata „razza" per spiegare tutti i fenomeni sociali. La protesta di Colajanni era durissima: se ci fosse limitati ad analizzare il volume di Niceforo sul piano prettamente scientifico, si sarebbe dovuto ignorarlo, dal momento che lo studio era privo di attendibilità, e assomigliava piuttosto a una „calunniosa requisitoria" per di più condita dalle „solite esagerazioni dei giovani e dei neofiti". Tuttavia, poiché il libro aveva generato un gran clamore nel dibattito pubblico e riassumeva considerazioni che già circolavano tra gli antropologi lombrosiani, era necessario occuparsene. Ed occuparsene significava dimostrare che tutte le affermazioni lì contenute erano infondate.

Il discorso di Colajanni – che deve essere letto alla luce dei due volumi della sua „Sociologia criminale" (1889) – partiva dalla confutazione dei presupposti dell'antropologia criminale lombrosiana. In primo luogo, la correlazione tra fisico e morale, tra corpo e cervello: se per Lombroso e Niceforo ad alterazioni fisiche visibili dovevano corrispondere degenerazioni interne, per Colajanni, le malformazioni esterne (le cosiddette „stigmate") non erano necessariamente il sintomo di patologie psichiche. L'origine della criminalità, dunque, non era imputabile alla ricomparsa di forme anatomiche di gruppi etnici considerati inferiori o di specie animali, né un criminale era riconoscibile dal suo solo aspetto esteriore. Contrariamente a quanto pensava Lombroso, infatti, la criminalità non dipendeva dagli atavismi fisici, ma da quelli che Colajanni definiva „atavismi morali", corrispondenti alla riemersione di costumi e condotte di vita che caratterizzavano fasi evolutive già superate nella storia dell'umanità. Qui tornava di nuovo in gioco Sergi. Per spiegare gli atavismi psichici, infatti, Colajanni partiva dall'idea sergiana di stratificazione del carattere, in base alla quale il carattere umano era formato dalla sovrapposizione di due elementi: uno ereditario o „fondamentale", che era il risultato dal materiale psichico trasmesso di generazione in generazione, e uno acquisito o „avventizio", che derivava dall'interazione dell'individuo con l'ambiente. Poteva talvolta accadere che, a causa di una deleteria influenza esterna, gli strati più profondi riemergessero, determinando comportamenti anacronistici, come la criminalità o la prostituzione. Mentre, però, per Sergi, la riapparizione di questi elementi sotterranei aveva effetti sia sulla psiche sia sul corpo, data la correlazione tra organo e funzione da lui accettata, per Colajanni le conseguenze di questa riemersione si limitavano alla sfera morale. Il criminale poteva dirsi simile ai selvaggi e ai bambini solo dal punto di vista della condotta, non dell'organismo.

In secondo luogo, Colajanni rifiutava il nesso tra „razza" e comportamento, quindi tra „razza" e delinquenza. Vi erano, secondo lui, popoli che, pur condividendo alcuni tratti fisici, presentavano in un dato momento storico condizioni morali e intellettuali differenti; per converso, esistevano popoli che, pur distinti dal punto di vista meramente fisico, presentavano abitudini e costumi analoghi. Questo perché i comportamenti umani non erano fissi e stabili, ma subivano cambiamenti – rapidi o graduali, profondi o superficiali – nel tempo e nello spazio, a causa non dell'eredità, ma dei fattori sociali. Ciò permetteva a Colajanni di respingere la distinzione tra „razze superiori" e „razze inferiori", ovvero tra „razze" destinate a svolgere una missione civilizzatrice e „razze" destinate a scomparire, con l'avanzare dei processi di modernizzazione. La barbarie e la civiltà non erano, infatti, categorie „assolute", ma categorie „relative": i gruppi umani che in una determinata epoca sembravano aver raggiunto l'apice del proprio sviluppo potevano facilmente regredire; viceversa, popoli che apparivano fermi a uno stadio elementare di civiltà potevano altrettanto agevolmente progredire.

„Le conseguenze del pregiudizio scientifico sulla superiorità o inferiorità della razza sono più enormi quando le razze si guardano solo in un dato periodo, senza considerarle attraverso al tempo. L'unilaterale osservazione della fenomenologia sociale in un dato momento della storia, induce sicuramente in errore in senso ottimista verso una razza e pessimista verso un'altra, perché tutte le razze hanno avuto la loro fase progressiva e quella regressiva. L'istantanea presa nel periodo ascendente a cui si dia un valore assoluto, farà accordare il primato in tulle le virtù ad un dato popolo; e viceversa."

L'evoluzione, per Colajanni, non era una linea continua, ma un percorso fatto di avanzamenti e regressioni, di accelerazioni e battute di arresto. Evoluzione non era progresso.

In terzo luogo, Colajanni sosteneva che non si potesse parlare di persistenza dei caratteri fisici di un dato popolo, vale a dire che non esistevano „razze pure". Come quelli morali e psicologici, anche i caratteri etnici – che li si volesse analizzare per mezzo dell'indice cefalico, come chiedeva Georges Vacher de Lapouge, o della forma del cranio, come proponeva Sergi – mutavano nel tempo, in relazione ai differenti contesti geografici in cui si viveva e agli incroci con altri gruppi umani. Per paradosso, notava Colajanni, se anche si fosse voluto ricorrere al concetto di „razza", si sarebbe dovuto concludere, con Sergi, che i sardi appartenevano alla „razza mediterranea", così come tutti i popoli che avevano invaso l'isola fin dall'antichità. Ne discendevano due conclusioni: da una parte, che la differenza antropologica, ammessa da Niceforo, tra la popolazione sarda e il resto degli italiani era soltanto „un mito"; dall'altra, che chiunque avesse voluto „imprimere il marchio dell'inferiorità" alla Sardegna, lo avrebbe impresso anche a tutti i popoli del Mediterraneo antico e contemporaneo. Dopo gli scritti di Sergi sulla stirpe mediterranea, concludeva Colajanni, bisognava essere davvero imprudenti per sostenere l'inferiorità intellettuale e morale del Meridione, dal momento che quelle „razze" ritenute inferiori avevano dato vita alla civiltà egizia e alla cartaginese, alla greca e alla romana. Come si poteva denigrarle? Con il suo tipico stile sarcastico Colajanni notava: „Sono convinto che egli [Niceforo] al suo studio è stato mosso da criteri obiettivi, assolutamente disinteressati: non può ignorare che anche lui appartiene alla razza maledetta e della medesima porta inoccultabili alcuni caratteri, tra i quali la bassa statura. Il cranio non gliel'ho misurato."

Nel 1901 Niceforo replicò alle critiche di Colajanni pubblicando un nuovo libro, „Italiani del Nord e Italiani del Sud", in cui contrapponeva la concretezza dei dati all'inconsistenza delle interpretazioni: i fatti, scriveva, „valgono assai più delle parole e delle idee astratte: queste sono carta moneta senza valore, mentre quelli sono moneta in oro". Così, sulla base di nuove statistiche, Niceforo tornava a sottolineare le differenze antropologiche, psicologiche, sociali, culturali, economiche e persino nutrizionali tra l'Italia del Sud e l'Italia del Nord. Ancora una volta sulla scorta degli studi sergiani, affermava che al Nord prevalevano le forme craniche sferoidali, sfenoidali e platicefale, mentre al Sud le ellissoidali, le ovoidali e le pentagonoidi; la capacità cerebrale era maggiore al Nord che al Sud, così come la circonferenza cranica, la lunghezza del torace, il peso e l'apertura delle braccia; al Nord prevalevano i nasi aquilini, i capelli di colore chiaro, lisci e piuttosto radi, al Sud i nasi sono in genere schiacciati, i capelli scuri, ricci e folti. Molti dei caratteri degli italiani del Sud erano „degenerativi" e indice di „inferiorità antropologica rispetto agli Italiani del Nord". Dal punto di vista psicologico, gli italiani del Sud erano eccitabili e passionali: questa irrequietezza era sinonimo di disattenzione, scarsa volontà, impulsività, eccesso di immaginazione, mancanza di senso pratico, ma anche di intelligenza pronta e rapida. Gli abitanti del Nord, invece, avevano un io „tardo, freddo e incline a lasciarsi assorbire passivamente dall'organizzazione collettiva". Tuttavia, in quella precisa fase storica, a cavallo tra due secoli, erano avvantaggiati rispetto agli abitanti del Mezzogiorno perché erano riusciti ad adattarsi meglio alle istituzioni dell'Italia liberale. Per quanto riguarda l'alimentazione, i meridionali consumavano una maggiore quantità di frumento rispetto ai settentrionali, ma i benefici della loro alimentazione erano annullati da uno scarsissimo contributo proteico. Dal punto di vista culturale, il tasso di analfabetismo al Sud era altissimo: mancavano le scuole pubbliche e private e il rendimento degli studenti era insufficiente, dal momento che questo non dipendeva solo „dalla rapidità e dalla prontezza dell'intelligenza, ma anche dalla pazienza di voler tenacemente, di applicarsi senza irrequietezza sui vari obbietti, dallo sforzo di un lavoro continuo e metodico". Al Sud, infine, erano poco diffuse le biblioteche, i giornali e le attività artistiche.

Di lì a pochi anni, le considerazioni di Niceforo sul divario Nord-Sud avrebbe portato alla nascita di una nuova disciplina, da lui stesso denominata „antropologia delle classi povere". Al pari dell'antropologia criminale lombrosiana, che si era posta l'obiettivo di studiare non la criminalità in astratto, ma il criminale „concreto", anche l'antropologia delle classi povere ambiva ad analizzare non la miseria, ma il „povero in carne ed ossa". In una serie di inchieste antropometriche e psicometriche, svolte sia sugli studenti della città di Losanna sia sui contadini delle regioni dell'Italia centromeridionale, Niceforo arrivò quindi a sostenere che negli strati più bassi della società (operai e contadini) si registrava una corrispondenza tra inferiorità socioeconomica e inferiorità antropologica. Rispetto alle classi abbienti, i poveri erano più bassi, avevano una circonferenza cranica ridotta, una scarsa sensibilità e una minore resistenza alla fatica mentale. Inoltre, erano spesso affetti da un ritardo nella pubertà, da un rallentamento nella crescita e da un maggior numero di anomalie e di arresti di sviluppo; presentavano, poi, una maggiore mortalità e fecondità, una minore mobilità sul territorio, un'età inferiore al momento del matrimonio e una tendenza verso alcune forme di criminalità – razzie, omicidi, vendette – che potevano definirsi „ataviche" perché tipiche delle società primitive. Tale „costituzione biopsichica" dei ceti inferiori era certo il risultato di „cause mesologiche" (condizioni di lavoro e abitative, qualità dell'alimentazione e igiene dell'ambiente), ma in maniera preponderante di fattori biologici, che comprendevano l'„eredità", ovvero l'accumulo dei caratteri trasmessi dagli antenati, e l'„inneità", vale a dire i caratteri acquisiti dall'individuo durante la vita intrauterina. Con un giudizio fin troppo benevolo, Roberto Michels arrivò a sostenere che Niceforo, distinguendo il „ricco" e il „povero", aveva fatto per l'antropologia ciò che Marx aveva fatto per l'economia: come Marx aveva compreso che il „ricco" e il „povero" hanno interessi economici divergenti, così Niceforo aveva compreso che il „ricco" e il „povero" presentavano tipi antropologici opposti. Per Michels, le teorie di Niceforo erano addirittura „la più splendida conferma alla dottrina del materialismo storico".

Giuseppe Sergi: tra „razza" e ambiente

Al dibattito sul rapporto tra „razza" e criminalità suscitato dalle pubblicazioni di Niceforo partecipò lo stesso Sergi. La prima occasione per intervenire, e per prendere posizione rispetto alla „Delinquenza in Sardegna", gli si presentò nel 1897, quando scrisse per la „Rivista italiana di sociologia" una breve nota critica su uno studio sulla criminalità femminile a Napoli del giurista Giovanni Ciraolo Hamnet, apparso l'anno prima con il titolo „Delitti femminili a Napoli. Studio di sociologia criminale". Secondo Sergi, Ciraolo aveva sottovalutato il ruolo dell'elemento etnico – il che equivaleva a „distruggere l'elemento reale della vita sociale, l'autore, cioè, dei fenomeni sociali e della criminalità" – a favore esclusivo delle condizioni esterne, suddivise in ambientali, psicofisiologiche, sociali e professionali. Bisognava, però, guardarsi dal ricadere nell'errore opposto, ovvero sopravvalutare il fattore „razziale", come aveva fatto Niceforo. Attribuendo alla stirpe mediterranea, che abitava l'Italia del Sud, una maggiore propensione al delitto, quel „giovane studioso e d'ingegno" aveva dimostrato scarso equilibrio. Per quanto criticabili, quindi, le affermazioni di Ciraolo apparivano a Sergi „ispirate ad una giusta moderazione, difficile a trovare nei giovani scrittori di sociologia criminale, i quali ordinariamente esagerano le tinte di alcuni caratteri e di altri motivi alla determinazione del delitto". Il riferimento polemico a Niceforo era lampante. Dunque, „razza", sì, ma senza gli „eccessi" di Niceforo, quel giovane che evidentemente si era lasciato prendere troppo la mano.

Nel 1898, Sergi tornò a esprimere la propria opinione sul divario Nord-Sud contribuendo a una vasta inchiesta sulla questione meridionale organizzata da Antonio Renda sulla rivista da lui diretta, „Il Pensiero contemporaneo". Agli intervistati venne chiesto anzitutto se credevano nell'esistenza di un „dislivello di civiltà e di sviluppo tra le due parti d'Italia"; quali erano, poi, secondo loro le cause del fenomeno (a tal proposito, il giornale ne suggeriva alcune: l'isolamento, il malgoverno spagnolo, il feudalesimo, la diversità psicologica); infine, quali soluzioni ritenevano più opportune „per ricondurre l'Italia meridionale ed insulare al livello della civiltà moderna". Nella sua risposta, Sergi affermava che non vi poteva essere nessun dubbio sulla „grande differenza" che separava l'Italia meridionale dall'Italia settentrionale e che era stata messa in luce così „rudemente" da Niceforo. Nascondere questa condizione significava voler fare come quei malati „che mutano e rimutano situazione nel proprio letto sperando di star meglio e soffrir meno". Le ragioni di tale squilibrio erano da ricercare anzitutto in una „causa profonda e organica", la „razza", che nessuno poteva ignorare, così come non si poteva ignorare che „il sole scalda e illumina". Nel corso della storia, infatti, alcune „razze" erano riuscite a raggiungere un alto grado di civilizzazione, altre invece non si erano elevate al di sopra dello stato selvaggio. La popolazione meridionale rientrava in quest'ultimo gruppo, in quanto „razza, che è africana d'origine, come tutte le popolazioni del Mediterraneo, ma è rimasta più africana delle altre frazioni". Accanto al fattore antropologico, bisognava poi tener conto delle cause socioeconomiche, in particolare dell'isolamento del Mezzogiorno e del malgoverno lì esercitato dalla dominazione borbonica, prima, e dallo Stato unitario, poi.

L'unico rimedio efficace, secondo Sergi, consisteva nel promuovere una massiccia immigrazione interna dal Nord al Sud. La vicinanza e la mescolanza di sangue tra le due stirpi poteva rivelarsi vantaggiosa non solo dal punto di vista biologico, ma anche da quello sociale e politico: gli abitanti del Nord, con la loro operosità, avrebbero potuto risvegliare le energie latenti dei meridionali. Non c'era da sperare, però, che a incoraggiare questi movimenti migratori fosse lo Stato, quel „gigantesco parassita, che tende, col fiscalismo e con le enormi e inutili spese di guerra, a uccidere il suo ospite, dissanguandolo". A farsene carico doveva essere la sparuta minoranza di „uomini di mente elevata" che ancora resisteva al Sud, ma le cui iniziative erano ostacolate „dall'inerzia locale e dalla sonnolenta e deleteria influenza politica".

A quella stessa inchiesta parteciparono anche Lombroso e Colajanni. Nella sua risposta, il padre dell'antropologia criminale italiana si diceva convinto dell'utilità di „rivelare le nostre piaghe; le quali, quanto più celate, incancreniscono", ma concedeva poco spazio alla „razza". Nessuno poteva negare l'esistenza in molte zone dell'Italia del Sud di „una civiltà inferiore", prodotta dall'isolamento geografico, dal malgoverno e dalla pessima amministrazione del territorio. Per risollevare le condizioni dell'Italia del Sud era necessario eliminare il latifondismo, potenziare l'insegnamento scolastico, facilitare l'emigrazione interna invece di quella esterna e razionalizzare l'amministrazione della giustizia. Inoltre, Lombroso notava come non tutto il Nord fosse ugualmente sviluppato, con il risultato che in alcune campagne della Lombardia e del Veneto le condizioni di vita dei contadini, dovute soprattutto all'alimentazione carente, fossero peggiori che in Puglia o in Sicilia. Nonostante tutto, Lombroso si diceva ottimista sul futuro del Meridione: in Calabria, ad esempio, il numero delle associazioni culturali e dei giornali era in aumento, mentre il tasso di mortalità e l'analfabetismo erano in diminuzione.

Nel suo intervento, Colajanni rivendicava di aver ammesso la disparità tra l'Italia del Sud e quella del Nord fin dal 1885, occupandosi della delinquenza in Sicilia. Non riteneva, tuttavia, che essa potesse essere spiegata con le ragioni antropologiche addotte dai lombrosiani, frutto di „ciarlataneria scientifica audace e fortunata" e degne di un „romanzo antropologico". Anche la diversità dei caratteri fisici tra le popolazioni italiane era innegabile, ma non era sufficiente per dimostrare l'inferiorità congenita dei meridionali. Inoltre, Colajanni rimproverava a Niceforo una grave contraddizione: se avesse seguito fino in fondo la tesi del suo maestro Sergi, si sarebbe accorto che quest'ultimo esaltava il valore della stirpe mediterranea e le sue qualità sul piano fisico e del temperamento, giungendo addirittura a rintracciare somiglianze tra gli antichi romani e gli inglesi moderni. Le cause della decadenza del Meridione, concludeva Colajanni, non risiedevano nei caratteri „razziali", bensì in „un aggrovigliamento davvero inestricabile" di problemi socioeconomici, che solo un „governo onesto, intelligente e preveggente" avrebbe potuto studiare e affrontare in modo proficuo. Del resto, chiudeva causticamente Colajanni, la corruzione politica meridionale era in gran parte opera del „nordico Depretis" e sempre dal Nord viene il „superasino Pelloux".

Sergi affrontò di nuovo la questione meridionale nel libro „La decadenza delle nazioni latine" (1900), in cui il divario tra Nord e Sud era inserito in un discorso più ampio relativo al declino di Italia, Francia e Spagna (le nazioni latine a cui faceva riferimento il titolo del volume). Il ciclo storico ed evolutivo di questi paesi, scriveva Sergi, si avviava al tramonto, come era già avvenuto con gli imperi del passato, compreso quello di Roma antica. A tale crisi contribuivano cause sociali, politiche e culturali: l'ingerenza della Chiesa cattolica negli affari dello Stato, l'impreparazione dei ceti dirigenti, l'importanza eccessiva assegnata nell'istruzione dei giovani alla cultura umanistica rispetto a quella scientifica, il militarismo e il patriottismo esasperati, che avevano portato a clamorose disfatte (Adua per l'Italia, Sedan per la Francia, la guerra contro gli Stati Uniti per la Spagna). A questi fattori si aggiungeva la tendenza, tipica della stirpe mediterranea, a non riconoscere l'autorità e la legge, a nutrire una scarsa considerazione per il bene comune e a ripiegare sull'individualismo. Il discorso sul declino nazionale, e in generale mediterraneo, rimontava per Sergi a molti anni addietro, quando nel suo primo libro, dal titolo „Usiologia ovvero scienza dell'essenza" (1868), aveva invitato l'Italia, per risollevarsi dallo stato di prostrazione culturale in cui versava, a recuperare la sua „antichissima" tradizione filosofica, che affondava le radici nel pitagorismo e nel pensiero della Magna Grecia.

Convinto, come Sergi, della superiorità degli inglesi e della decadenza dei latini era anche Guglielmo Ferrero. Nel 1897, nel volume „L'Europa giovane" Ferrero aveva sostenuto che le differenze psicologiche tra la „razza germanica", formata da tedeschi, inglesi e scandinavi, e la „razza latina", che comprendeva italiani, francesi e spagnoli, erano spiegabili sulla base della loro diversa concezione della morale sessuale. Mentre i popoli latini pensavano all'amore soprattutto come desiderio e piacere sensuale, i popoli germanici erano legati a una visione intellettualistica e distaccata, ed erano pertanto sessualmente meno precoci e attivi. Ciò consentiva loro di non disperdere energie mentali e fisiche e di impiegarle nel lavoro. Essendo poco esposti alle sollecitazioni dei sensi, i tedeschi e gli inglesi erano più metodici e costanti, più attenti e pazienti, più disciplinati e quindi più adatti a vivere in una società industriale e capitalistica, come era quella moderna: „un inglese", scriveva Ferrero, „vale, socialmente, due italiani, perché è due volte più energico, sebbene l'italiano sia quasi sempre fornito di intelligenza più viva". In virtù di queste sue qualità, la „razza germanica" si sarebbe presto imposta sui latini, determinando la crisi del „cesarismo", ovvero di quel modello politico-economico fondato sul patriottismo, sull'assistenzialismo, sulla burocrazia elefantiaca e sulla corruzione dei ceti dirigenti, e la conseguente affermazione di uno Stato fondato sul capitalismo industriale, su una rigorosa amministrazione dei pubblici uffici, su una burocrazia efficiente e poco invadente, su una pressione fiscale equa e su uomini politici „di buon senso, laboriosi, energici".

Il dibattito sulla decadenza delle nazioni latine si intersecava e a volte si sovrapponeva a quello sulle due Italie. Proprio nella „Decadenza delle nazioni latine", Sergi ribadiva l'esistenza di un „antagonismo di condizioni" tra l'Italia del Nord e l'Italia del Sud, cercando nuovamente di conciliare nature e nurture. Da una parte, non si poteva misconoscere l'importanza della „razza", perché farlo significava ammettere l'uguaglianza anatomica e fisiologica delle varietà umane: in tal caso, l'antropologia come campo di studio e di ricerca non avrebbe avuto motivo di esistere. L'analisi antropologica consentiva di affermare che la popolazione del Mezzogiorno d'Italia era simile „nel corpo come nello spirito, alle tribù primitive, ed ai consanguinei d'Africa, a Berberi o Abissini". Dall'altra parte, però, l'invocazione dei caratteri fisici non era sufficiente per spiegare il ritardo meridionale: bisognava tener conto del fatto che, attraverso le invasioni arabe e normanne, così come il governo degli Angioini e quello dei Borboni, gli abitanti dell'Italia meridionale erano stati sottoposti a „un continuo lavoro di demolizione individuale e sociale". Il loro carattere, già corrotto, era „divenuto malato come per mali cronici". Lo Stato unitario, invece di riparare ai danni del passato con una politica illuminata, aveva aggravato tale miseria vuoi per ignoranza, vuoi per disinteresse, vuoi ancora per essersi affidato nel governo locale ad amministratori corrotti. Non era così riuscito a promuovere lo sviluppo dell'industria, né a creare le basi per un'agricoltura fiorente. Al Sud, continuava Sergi, lo Stato centrale si comportava come nelle colonie, prelevando in modo indiscriminato risorse e materie prime (i prodotti agricoli non subivano nessun processo di raffinamento e trasformazione, ma erano immessi direttamente sul mercato allo stato grezzo) e sfruttando la manodopera. Non doveva pertanto stupire che le regioni meridionali d'Italia fossero divenute la patria del clientelismo, della corruzione e della criminalità. La sopravvivenza di pochi „uomini di carattere integro e capaci di bene" si doveva esclusivamente alla tempra forte di una minoranza, che era riuscita a sopravvivere a tante sciagure.

Storicamente l'Italia del Nord era stata „meno disgraziata" di quella meridionale: il dominio spagnolo non era riuscito a fiaccare il carattere dei suoi abitanti e la dominazione austriaca, pur violenta e tirannica, aveva avuto più di qualche merito nel campo dell'istruzione e dell'economia. In fondo, scriveva Sergi, il governo austriaco poteva essere addirittura considerato „migliore dell'attuale [governo] italiano". Il Nord, poi, era avvantaggiato anche dal punto di vista geografico, poiché, essendo vicino ai paesi dell'Europa centrale, ne subiva l'influenza benefica. Così, mentre il Nord era „in via di progresso", il Sud era fermo „come qualche secolo addietro" ed era abitato da „popolazioni primitive" che lavoravano poco e non collaboravano tra loro. Il tutto nella noncuranza dello Stato che, inseguendo il sogno nazionalistico di costruire una „Grande Italia", disperdeva le proprie risorse nella preparazione militare, invece di puntare alla formazione delle giovani generazioni.

Vale la pena qui di rimarcare che per Sergi l'esistenza di dislivelli di civiltà tra i gruppi umani non era un argomento a sostegno del colonialismo e dell'imperialismo, come dimostrano i suoi duri giudizi sulla campagna crispina in Africa orientale. Al contrario, egli fu favorevole, almeno fino al primo conflitto mondiale, alla messa al bando della guerra, considerata „cacogenetica" e „controselettiva", perché causava la morte della popolazione più forte fisicamente e più pronta dal punto di vista intellettuale, mantenendo invece in vita gli „inabili" e gli „inadatti" e consentendo loro di riprodursi e così di trasmettere le loro „tare" alla progenie. Sergi era inoltre convinto che l'autentico valore delle nazioni consistesse non nella capacità di affermare la propria volontà di potenza, per mezzo della conquista e dell'espansione territoriale o dell'appropriazione e dello sfruttamento delle risorse umane e naturali, bensì nella capacità dei governi di educare ed elevare i propri cittadini sul piano culturale e civile attraverso lo sviluppo e la diffusione della cultura scientifica e tecnica, a discapito di quella umanistica e classica, considerata un retaggio del passato e quindi un ostacolo nel cammino verso il progresso e l'emancipazione. In tale opera di „civilizzazione", di chiara impronta positivistica, un ruolo di primo piano doveva essere svolto dallo „scienziato", che era chiamato a uscire dal proprio laboratorio e a contribuire a liberare i popoli dall'ignoranza e della superstizione: la scienza doveva essere lo strumento per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi disagiate. Quello di Sergi era un socialismo evoluzionistico, debitore più di Spencer e di Ernst Haeckel che di Darwin e ostile alla teoria marxista, considerata troppo legata alla logica del conflitto e della lotta tra le classi e troppo schiacciata su un'analisi economicistica della società. Pur nella sua indipendenza, sempre rivendicata, nel giugno 1909 Sergi accettò la candidatura come deputato al Parlamento tra le file democratiche: appoggiato anche da Colajanni, si presentò nel secondo collegio di Messina, sua città natale, ma non riuscì a essere eletto.

Sergi contra Niceforo

Nel 1906 Sergi – ormai quasi settantenne – decise di ripercorrere i passi di Niceforo, compiendo un viaggio in Sardegna e traendone l'anno successivo un volume dedicato allo studio dell'antropologia, della psicologia e delle condizioni di vita degli abitanti dell'isola. Nel periodo della visita di Sergi, la regione era stata scossa da un'ondata di sommosse popolari, che erano partite da Cagliari e si erano presto diffuse nelle zone limitrofe. Queste manifestazioni contro il carovita, che avevano coinvolto trasversalmente il sottoproletariato, gli operai e il ceto medio, erano state represse dalle forze dell'ordine: alla fine, si contarono quattordici morti, un centinaio di feriti e altrettanti arresti. Dopo i moti popolari, nel 1907 il governo emanò una nuova legislazione speciale per la Sardegna, che seguiva quelle del 1897 e del 1902. I provvedimenti si inserivano in una linea di intervento per il Mezzogiorno già sperimentata in Basilicata, in Calabria, in Puglia e a Napoli, e volta a creare le condizioni per lo sviluppo dell'imprenditorialità agricola. Fortemente voluta dal ministro dell'Agricoltura di origine sarda Francesco Cocco Ortu, la legge prevedeva esenzioni fiscali per i lavoratori della terra, la costruzione di un sistema di credito agricolo, la bonifica e la sistemazione dei terreni.

Come si ricordava, da quel viaggio Sergi ricavò nel 1907 uno studio sulle condizioni di vita della popolazione sarda, dal titolo „La Sardegna. Note e comenti di un antropologo". Il volume era diviso in due parti. Nella prima sezione, dedicata all'indagine sui caratteri fisici della popolazione sarda, Sergi riprendeva quanto aveva scritto l'anno precedente sugli „Atti della Società romana di antropologia". Esaminando sessantatré crani provenienti dalla necropoli prenuragica di Anghelu Ruju, nelle vicinanze di Alghero, aveva scoperto che la maggior parte di essi, circa cinquanta, apparteneva al tipo mediterraneo (erano cioè dolicocefali di forma ellissoidale, ovoidale e pentagonoide), mentre i restanti presentavano i tipici caratteri eurasiatici, avendo il cranio brachicefalo cuneiforme. Anche la Sardegna, dunque, come il resto d'Italia e d'Europa, era stata abitata in epoca preistorica da un ramo della stirpe mediterranea, di statura mediocre, con la pelle, i capelli e gli occhi scuri. Nell'età del bronzo, poi, era stata interessata dalla prima invasione delle genti eurasiatiche. I nuovi venuti, poco numerosi, non erano riusciti a imporre la loro lingua e i loro costumi funerari, ma avevano accettato quelli degli indigeni. Oltre agli elementi mediterranei ed eurasiatici, una terza componente della popolazione sarda era costituita dalla varietà pigmea, i cui caratteri esterni erano per lo più simili a quelli dei mediterranei, ma in cui alla bassa statura si accompagnava una limitata capacità cranica. La sua presenza sull'isola non poteva considerarsi un „fenomeno eccezionale", notava Sergi, perché i pigmei erano diffusi anche nell'Italia peninsulare. La percentuale più elevata di pigmei presenti in Sardegna rispetto alle altre regioni italiane era spiegabile non in base a processi degenerativi, ma con l'isolamento degli abitanti delle zone interne e meridionali dell'isola, che aveva nel tempo impedito che i diversi gruppi etnici potessero incrociarsi.

Fin qui, niente di nuovo rispetto a Niceforo. L'originalità dello scritto sergiano risiedeva altrove. Era certamente vero, scriveva Sergi, che la psicologia degli abitanti della Sardegna poteva definirsi „naturale", dato che la vita psichica era il „riflesso" dell'ambiente esterno. Il popolo sardo viveva „come la natura esige e come egli stesso si adatta": lontano dai processi di civilizzazione, poco interessato all'igiene personale, poco incline alla disciplina e al lavoro, incapace di iniziative personali, privo di slanci ideali; in una parola, „apatico". Era altrettanto vero, però, che il sardo poteva definirsi buono, socievole e ospitale: certo, ignorava la solidarietà, l'amore e la simpatia come concetti astratti, ma era lo stesso in grado di compiere gesti di accoglienza e di benevolenza, anche nei confronti di estranei. Inoltre, non presentava una predisposizione fisiologica al delitto; anzi, a differenza di quanto pensava Niceforo, il tasso di delinquenza dell'isola era più basso rispetto ad altri territori dell'Italia meridionale e centrale. L'unica eccezione erano i furti, commessi però per mera necessità, poiché i contadini non riuscivano a mantenersi con il ricavato di pochi mesi o addirittura di poche settimane all'anno. Benché la povertà in Sardegna fosse „un fenomeno antico", come testimoniavano le misere suppellettili ritrovate dagli archeologi nelle tombe nuragiche, per Sergi l'isola non era affatto „un covo di briganti e di assassini". L'arretratezza della mentalità sarda non era dovuta a una presunta inferiorità di „razza", bensì ai gravi mali sociali e politici che affliggevano gli abitanti dell'isola e che impedivano loro di adattarsi alla modernità.

Proprio in riferimento ai fattori sociali ed economici, Sergi notava che a causa dell'aridità del suolo l'agricoltura era quasi del tutto impraticabile; la pastorizia dava scarsi risultati perché basata su mezzi rudimentali, simili a quelli dei pastori nomadi dell'Asia e dell'Africa. Nelle zone paludose era diffusa la malaria, contro la quale le poche dosi di chinino inviate dal governo erano inefficaci. Per quanto riguardava la politica, le amministrazioni comunali erano „della peggiore specie" perché oberavano la popolazione di tasse, senza fornire i servizi più elementari, dall'acqua potabile alle strade, dall'illuminazione notturna alle scuole, dalle fogne all'igiene pubblica. I sindaci, inoltre, erano ormai impotenti di fronte all'autorità sempre maggiore assunta dai segretari comunali. In provincia, la situazione era, se possibile, ancora più grave: i prefetti vivevano isolati nei loro palazzi e si limitavano a frequentare i notabili locali, per i quali davano suntuosi ricevimenti; ignoravano, perciò, le condizioni di vita dei loro concittadini e, anziché attendere alla loro „missione morale e civile", assomigliavano a „zar" impegnati a imporre ordini e a firmare disposizioni. Solo in vista delle elezioni intervenivano direttamente nella vita politica, con la compravendita dei voti e l'arresto dei loro avversari. Lo stesso disinteresse si riscontrava tra i deputati sardi eletti in Parlamento. Si poteva, dunque, affermare che la Sardegna era dappertutto „senza difensori nei suoi diritti, senza protettori nei suoi mali e nei suoi bisogni, senza rappresentanti veri e legittimi che facciano valere la loro voce".

I rimproveri più duri erano riservati alla classe dirigente nazionale, che pretendeva di governare come ai tempi di Carlo Magno o di Federico Barbarossa, esigendo dalle popolazioni locali solo tributi e soldati: „Lo Stato", scriveva amaramente Sergi, „deve primeggiare con la grande flotta, con il grosso esercito, deve apparire di prim'ordine e poco importa se gli uomini che compongono la nazione siano miseri e poveri, se siano analfabeti e ignoranti". La coscrizione obbligatoria aveva avuto effetti deleteri in Sardegna, poiché aveva allontanato forzatamente dalla loro terra pastori e contadini, i quali avevano imparato in caserma soltanto a maneggiare le armi „sotto il sentimento selvaggio di uccidere per la guerra". L'indifferenza dello Stato aveva avuto numerose conseguenze: il tasso di analfabetismo era altissimo, persino più elevato di quello degli indiani d'America; il sistema viario versava in condizioni disastrose, peggiori rispetto all'epoca romana; le ferrovie erano inesistenti, al punto che i sardi dovevano spostarsi ancora a dorso di animali; le attività commerciali e industriali erano pressoché assenti e gli abitanti di molte aree erano costretti a vivere in una condizione di ristrettezza economica e sociale. Il governo pretendeva di „civilizzare l'Eritrea", ma si disinteressava di „tanta barbarie [che] si trova in casa nostra!". Il problema era ancora una volta il centralismo politico promosso dallo Stato unitario: „Un trattamento eguale a regioni diseguali diventa non soltanto ingiustizia, ma errore dal punto di vista pratico; perché mentre una regione poteva sentire i benefizi dellʼunificazione, l'altra ne sentiva il peso e il disagio."

Sergi tornava a dirsi paladino del federalismo, dal momento che l'unità nazionale italiana, come quella francese, non poteva considerarsi completa: in entrambi i casi si trattava di una fusione troppo frettolosa di unità eterogenee. Per alcuni anni il governo avrebbe dovuto concedere pieni poteri a un uomo dotato di „coltura larga e sentimenti di umanità", capace di risollevare le condizioni economiche, igieniche e sociali dell'isola, sfruttando le risorse del territorio e tenendosi alla larga dai potentati locali. Nel 1906, Sergi aveva consigliato lo stesso rimedio per Napoli, città che, secondo lui, versava in una situazione di degrado non per l'influenza dei fattori antropologici invocati da Niceforo, ma per la pessima amministrazione comunale, ridotta a „una rete inestricabile d'intrighi, d'interessi personali, materiali, politici, di dominio, di sudditanza, di corruzione d'ogni colore e d'ogni tipo". Per guarire, Napoli aveva bisogno di un „rimedio eroico", che consisteva nella nomina di un commissario dotato di pieni poteri: „dieci anni di potere dittatorio severo, rigido, ma giusto" avrebbero sradicato la corruzione politica e la delinquenza.

Conclusione

Le reazioni dei contemporanei al libro di Sergi sulla Sardegna furono perlopiù favorevoli e molte sottolinearono la distanza con l'opera scritta da Niceforo dieci anni prima: l'archeologo Antonio Taramelli, scopritore del sito di Anghelu Ruju e autore di importanti ricerche sulla Sardegna prenuragica, riteneva che il volume fosse „scritto da uno spirito infiammato di poesia e di bontà"; un recensore anonimo della „Rivista d'Italia" lodava in Sergi „le qualità eminenti di scienziato, di pensatore e di uomo di cuore" e giudicava la lettura de „La Sardegna" „utile, piacevole e feconda di molte gravi riflessioni"; l'economista e statistico Francesco Coletti, che era stato segretario generale della Commissione d'inchiesta Faina sulle condizioni dei contadini meridionali, elogiava Sergi perché la sua analisi dei mali sardi sembrava contraddire le tesi della scuola di antropologia criminale lombrosiana. Anche il giudizio di Colajanni fu benevolo: „La Sardegna" poteva considerarsi „una delle migliori pubblicazioni dell'illustre antropologo di Roma", a cui spettava il merito di aver difeso la „razza maledetta" dalle „asserzioni calunniose" di Niceforo. Solo su un punto Colajanni dissentiva: la proposta sergiana di nominare per l'amministrazione dell'isola un commissario con pieni poteri gli appariva alla stregua di una „utopia spenceriana del dispotismo scientifico, irrealizzata e irrealizzabile, perché non si è trovato sinora e forse non si troverà mai né in Italia, né altrove questo superuomo che possa incarnarla".

Sul libro di Sergi grava, però, il duro giudizio di Antonio Gramsci. Nel 1916, prendendo spunto da un viaggio in Sardegna compiuto da Pietro Mascagni, Gramsci criticava i viaggiatori che trascorrevano il loro tempo a gozzovigliare e che una volta tornati sul continente si atteggiavano a novelli „Cristoforo Colombo", sostenendo di aver scoperto qualcosa sul carattere o sulle condizioni di vita dei sardi solo per dimostrare di non aver perduto il loro tempo. Tra questi cosiddetti „scopritori" Gramsci annoverava proprio Sergi, che „in quindici giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l'infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo". Nell'ottobre di dieci anni dopo, nel suo saggio sulla „questione meridionale", Gramsci avrebbe rincarato la dose, accusando gli antropologi positivisti („i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano") e il partito socialista di aver contribuito a diffondere tra le classi popolari dell'Italia settentrionale la convinzione che il Mezzogiorno fosse „la palla di piombo, che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia" e che gli abitanti del Meridione fossero „biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale".

In Gramsci, l'accostamento tra Sergi e Niceforo era dettato da ragioni di polemica politica: mettere in luce le „relazioni pericolose" che si erano create alla fine dell'Ottocento tra socialismo e lombrosismo e i deleteri effetti che esse avevano determinato su ampi strati della società italiana. Tutt'altro, invece, era l'intento che aveva spinto i redattori del „Dictionary of Races and Peoples" della US Immigration Commission ad avvicinare i nomi di Sergi e Niceforo. Alla voce „Italian" del „Dictionary" le teorie antropologiche di Sergi, definito „un autorevole etnologo italiano", erano usate per affermare che in Italia non esisteva una „razza omogenea", ma „due distinti gruppi etnici": da una parte vi erano gli abitanti dell'Italia del Nord, alti, brachicefali e dalla pelle chiara; dall'altra quelli del Sud, che appartenevano alla „razza mediterranea" o „camitica" e avevano i crani allungati, la pelle scura ed erano di bassa statura. Anche se i meridionali non erano propriamente „negri o veri africani", in loro si potevano rinvenire tracce „di sangue africano". Al „sociologo" Niceforo, invece, si faceva riferimento come a colui che per primo aveva individuato le differenze psicologiche tra questi due gruppi etnici (sappiamo che non è così, però): nel „Dictionary", i settentrionali erano definiti „freddi, cauti, pazienti, pratici, capaci di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna"; i meridionali erano invece considerati „irritabili, impulsivi, molto fantasiosi, privi di senso pratico". Fu anche questo miscuglio confuso e superficiale a fornire un fondamento teorico all'Immigration Act, votato dal Congresso americano nel 1917 allo scopo di vietare l'immigrazione da molti paesi asiatici e imporre criteri più restrittivi per quella proveniente dall'Europa.

Al di là del forzato accostamento proposto dal „Dictionary", la lettura degli scritti di Sergi e Niceforo (e in contrasto quelli di Colajanni) consente di fare alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, l'ambiente lombrosiano, spesso descritto come monolitico e omogeneo, fu in verità caratterizzato da un ampio spettro di posizioni differenti, ricche di sfumature, e talvolta addirittura in opposizione tra loro. In secondo luogo, l'interesse antropologico per la questione meridionale è parte di un processo che attraversa l'intera storia dell'Italia contemporanea. È proprio in corrispondenza della fine dell'Ottocento, infatti, che si approfondì quella cesura tra intellettuali e popolo che Gramsci individuava come una delle grandi questioni lasciate aperte dall'unificazione nazionale. Antropologi ed etnologi, rappresentanti della cultura dotta, o dominante se si vuole, decisero di affrontare un problema „politico" (la presunta arretratezza meridionale) spesso animati da uno slancio riformatore e progressista e con l'uso di categorie che ritenevano „scientifiche". Molti di loro, così, intrapresero missioni e spedizioni nel Sud dell'Italia, in cui provarono a descrivere una cultura che appariva loro „estranea" (la cultura popolare, appunto), ricavandone impressioni contrastanti: per alcuni, gli abitanti del Meridione erano assimilabili ai buoni selvaggi di illuministica memoria (le loro usanze non erano il frutto di una costituzione organica deteriorata, quanto di un eccessivo attaccamento alla natura); per altri, invece, appartenevano a un gruppo etnico diverso da quello del Nord per caratteristiche morfologiche e funzionali. Nell'uno come nell'altro caso, la „razza" fu lo strumento ideologico per definire un'alterità che permetteva, specularmente, una forma di riconoscimento da parte degli osservatori. Il dibattito „razziale" sulla questione meridionale non fu, dunque, una conseguenza inintenzionale delle spedizioni di viaggio compiute da molti degli autori indagati, ma deve essere letto come parte di un tentativo più ambizioso di definire l'identità nazionale, anche attraverso l'individuazione di spazi di marginalità ed esclusione, sul piano concreto o simbolico. Antropologi ed etnologi contribuirono a questo progetto provando a rispondere a una serie di domande ritenute cruciali: gli italiani appartenevano a un unico gruppo etnico o derivavano da ceppi differenti, di cui avevano conservato le differenze fisiche e psichiche? Le loro origini andavano rintracciate nei popoli mediterranei o in quelli indoeuropei? Il loro grado di civilizzazione era uniforme o presentava diseguaglianze marcate? E in quest'ultimo caso, era possibile colmare tale divario?

Proprio la connessione tra antropologia e politica mi sembra che sia sfuggita a una parte della storiografia italiana, che fino ad anni recenti si è orientata sullo studio dell'esperienza fascista dedicando un'attenzione limitata ai molteplici fermenti che hanno segnato l'età liberale. Si è trattato di una scelta comprensibile, e oserei dire inevitabile, se il termine non fosse antistorico, ma che ha condotto non di rado a una lettura teleologica dei discorsi sulla „razza" prodotti nella seconda metà dell'Ottocento e considerati in funzione delle politiche „razziali" del regime e non come un oggetto di studio autonomo. In fondo, si è mancato così di cogliere che la questione meridionale fu, anche per la „galassia" lombrosiana, un modo per fare i conti con la modernità e per valutare la solidità delle idee che l'avevano accompagnata, prima fra tutte la fiducia nel progresso.

Quel che è certo è che, nei discorsi sviluppati dagli antropologi sulla questione meridionale, il „razzismo interno", diretto nei confronti degli abitanti del Sud della penisola, si saldò al „razzismo esterno", rivolto soprattutto verso le popolazioni dell'Africa orientale. Tale saldatura fu possibile anche grazie all'appello a concetti e atteggiamenti – quali l'„infantilizzazione", ovvero la tendenza a vedere nell'altro un bambino, che non avrebbe ancora raggiunto la piena maturazione fisica e intellettiva dei popoli civili, e la „bestializzazione", ossia la propensione a non riconoscere l'umanità dell'altro – profondamente radicati nell'esperienza del colonialismo europeo. Probabilmente proprio il ricorso a queste rappresentazioni dell'altro ha permesso la sopravvivenza di stereotipi e pregiudizi sul divario Nord-Sud, ben al di là dell'antropologia positivistica. La storia del razzismo italiano è senza dubbio più lunga e tortuosa di quanto si possa immaginare.

Footnotes 1 La letteratura sulla questione meridionale è vastissima. Mi limito perciò qui a citare soltanto alcuni studi che trattano del contributo degli antropologi a tale dibattito o che quantomeno vi accennano: Massimo L. Salvadori , Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1976; Alberto Burgio /Luciano Casali (a cura di), Studi sul razzismo italiano, Bologna 1996; Mary Gibson , Biology or Environment? Race and Southern „Deviancy" in the Writings of Italian Criminologists, 1880–1920, in: Jane Schneider (a cura di), Italy's „Southern Question". Orientalism in one Country, New York 1998, pp. 99–115; Alberto Burgio (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia, 1870–1945, Bologna 1999; Roberta Passione , Il Sud di Cesare Lombroso fra scienza e politica, in: Il Risorgimento 52,1 (2000), pp. 133–154; John Dickie , Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, 1860–1900, New York 1999; Claudia Petraccone , Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d'Italia, Roma-Bari 2000; ead., Le „due Italie". La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari 2005; Aliza S. Wong , Race and the Nation in Liberal Italy, 1861–1911. Meridionalism, Empire and Diaspora, New York 2006; Vito Teti , La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma 2011 (nuova edizione; prima edizione 1993); Antonino De Francesco , La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano 2012; Giuseppe Cimino /Renato Foschi , Northerners Versus Southerners. Italian Anthropology and Psychology Faced With the „Southern Question", in: History of Psychology 4 (2014), pp. 282–295; John A. Davis , A Tale of Two Italys? The „Southern Question" Past and Present, in: Erik Jones /Gianfranco Pasquino (a cura di), The Oxford Handbook of Italian Politics, Oxford 2015, pp. 53–67; Angelo Panarese , Le „due Italie". Liberalismo e socialismo. La questione meridionale da Croce e Gramsci ai giorni nostri, Napoli 2016; Rhiannon Noel Welch , Vital Subjects. Race and Biopolitics in Italy, 1860–1920, Liverpool 2016; Sabino Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo. Nord e Sud nella storia d'Italia, Bologna 2016; Antonello Petrillo , Eccezione e sacrificio. Il destino „federale" del Mezzogiorno nella sociologia, in: Cartografie sociali. Rivista di sociologia e scienze umane 1,1 (2016), pp. 31–83; Guido Pescosolido , Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia, Soveria Mannelli 2017; Salvatore Di Maria , Towards a Unified Italy. Historical, Cultural, and Literary Perspectives on the Southern Question, London 2018; Adriano Prosperi , Un volgo disperso. Contadini d'Italia nell'Ottocento, Torino 2019. 2 Cfr. Francis Galton , English Men of Science. Their Nature and Nurture, London 1874; id., The History of Twins, as a Criterion of the Relative Powers of Nature and Nurture, in: Fraser's Magazine 12 (1875), pp. 566–576; poi ripubblicato con variazioni in: Journal of the Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland 5 (1875), pp. 391–406. 3 Cfr. Mario Da Passano , La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra mondiale, in: Luigi Berlinguer /Antonello Mattone (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Sardegna, Torino 1998, pp. 493–497; id., Omicidi, rapine, bardane. Diritto penale e politiche criminali nella Sardegna moderna (XVII–XIX secolo), Roma 2015, pp. 245–260. 4 Sull'inchiesta, cfr. ora l'importante contributo di Antonello Mattone , L'inchiesta di Francesco Pais Serra sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna (1894–96), in: id./Salvatore Mura (a cura di), Le inchieste parlamentari sulla Sardegna (1869–1972), Milano 2021, pp. 185–231. 5 Nel 1896 Grazia Deledda dedicò il suo romanzo „Le vie del male" a Niceforo e Orano, „che amorosamente visitarono la Sardegna". La dedica fu poi soppressa nell'edizione del 1906. Nella „Delinquenza in Sardegna", Niceforo cita più volte gli studi di Deledda sulle tradizioni popolari sarde. Una sintetica analisi del rapporto tra Niceforo e Deledda si trova in Peter J. Fuller , Regional Identity in Sardinian Writing of the Twentieth Century. The Work of Grazia Deledda and Giuseppe Dessì, in: The Italianist 20,1 (2000), pp. 61–63. 6 Cfr. Alfredo Niceforo , Le varietà umane pigmee e microcefaliche della Sardegna, in: Atti della Società romana di antropologia 3 (1895–1896), pp. 201–222. Per la nomina di Niceforo a socio ordinario della Società romana di antropologia, cfr. l'adunanza del 29 dicembre 1895, ibid., p. 178. 7 Id., La delinquenza in Sardegna. Note di sociologia criminale, prefazione di Enrico Ferri , Palermo 1897. Cfr. Francesco Tiragallo , Antropologia e ideologia in „La delinquenza in Sardegna" di Alfredo Niceforo, in: Annali della Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Cagliari 5 (1980), pp. 411–453; Maria Gabriella Da Re /Francesco Tiragallo , Il criminologo positivista e la patologia del corpo sociale (1890–1900), in: Calogero Valenti /Gianfranco Tore (a cura di), Sanità e Società. Sicilia e Sardegna. Secoli XVI–XX, Udine 1988, pp. 374–391; Girolamo Sotgiu , Banditismo e scuola antropologica criminale, in: Études corses 21,40–41 (1993), pp. 281–289. 8 Su Orano, che aveva ricavato dal viaggio un libro sulla „Psicologia della Sardegna" (1896), si veda p. 395. 9 Già l'antropologo sardo Efisio Ardu Onnis aveva notato in Niceforo la compresenza di tesi sergiane e lombrosiane e aveva invitato l'autore della „Delinquenza in Sardegna" a decidersi tra l'uno o l'altro indirizzo: cfr. Efisio Ardu Onnis , Le anomalie fisiche e la degenerazione nell'„Italia barbara contemporanea", in: Archivio per l'antropologia e la etnologia 33 (1903), pp. 528 sg. Nel 1868 Darwin aveva parlato di atavismo nel capitolo 13 di „The Variation of Animals and Plants Under Domestication" e il termine circolava nella comunità scientifica italiana fin dagli anni Settanta dell'Ottocento. Sul concetto, cfr. la voce di Patrick Tort , Atavisme (Théorie darwinienne de l'), in: id. (a cura di), Dictionnaire du darwinisme et de l'évolution, vol. 1: A–E, Paris 1996, pp. 147–157. Cfr. anche Stefania Nicasi , Atavismo. Patologia di un ritorno, in: Filippo Maria Ferro et al. (a cura di), Passioni della mente e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria italiana tra '800 e '900, Milano 1989, pp. 363–371. Cfr. Cesare Lombroso , Esistenza di una fossa occipitale mediana nel cranio di un delinquente, in: Regio Istituto lombardo di scienze e lettere. Rendiconti 4 (1871), pp. 37–43. Cfr. id. , Come nacque e come crebbe l'antropologia criminale, in: Ricerche di psichiatria e nevrologia, antropologia e filosofia, dedicate al prof. Enrico Morselli nel 25 o  anno del suo insegnamento universitario, Milano 1907, pp. 501–510; id., Discours d'ouverture, in: Comptes-rendus du VI congrès international d'anthropologie criminelle (Turin, 28 avril – 3 mai 1906), Torino 1908, pp. XXXI–XXXVI, in particolare p. XXXII; Gina Lombroso , Come mio padre venne all'Antropologia Criminale, in: Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale 41 (1921), pp. 419–437. Sulla „scoperta lombrosiana", cfr. Luigi Guarnieri , L'atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, Milano 2000, pp. 9–12; Marc Renneville , Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell'atavismo criminale, in: Silvano Montaldo /Paolo Tappero (a cura di), Il Museo di Antropologia criminale „Cesare Lombroso", Torino 2009, pp. 107–112 e, nello stesso volume, il contributo di Giacomo Giacobini /Cristina Cilli /Giancarla Malerba , Tra anatomia e antropologia fisica nelle collezioni del museo, pp. 113–118; Silvano Montaldo , Skulls, Science and Positivist Symbolism, in: Maria Teresa Milicia (a cura di), The Great Laboratory of Humanity. Collection, Patrimony and Repatriation of Human Remains, Padova 2020, pp. 69–80. Renzo Villa , Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell'antropologia criminale, Milano 1985, p. 149. Villa sottolinea le numerose discrepanze tra i vari resoconti lombrosiani riguardanti Villella: a volte, il brigante sembra avere sessantanove anni, altre settanta, altre ancora settantadue. A volte è descritto come uno „stortillato", altre come un „ladro agilissimo" (pp. 148 sg.). Sulla riforma craniologica sergiana, mi permetto di rimandare a Giovanni Cerro , Giuseppe Sergi e le riforme craniologiche nell'antropologia italiana di fine Ottocento, in: Medicina & Storia 15,8 (2015), pp. 29–52; id., Giuseppe Sergi. The Portrait of a Positivist Scientist, in: JASs. Journal of Anthropological Sciences 95 (2017), pp. 1–28. Su Sergi, cfr. anche Luca Tedesco , Giuseppe Sergi e „la morale fondata sulla scienza". Degenerazione e perfezionamento razziale nel fondatore del Comitato Italiano per gli Studi di Eugenica, Milano 2012; Fedra A. Pizzato , Per una storia antropologica della nazione. Mito mediterraneo e costruzione nazionale in Giuseppe Sergi (1880–1919), in: Storia del pensiero politico 4,1 (2015), pp. 25–51. Cfr. Giuseppe Sergi , Origine e diffusione della stirpe mediterranea. Induzioni antropologiche, Roma 1895. Cfr. id., La stirpe ligure nel Bolognese, in: Atti e memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le province di Romagna 1 (1883), pp. 17–36; id., Un cranio della necropoli di Villanova presso Bologna, in: Archivio per l'antropologia e la etnologia 13 (1883), pp. 1–11; id., Liguri e Celti nella valle del Po, in: ibid., pp. 117–175; id., Antropologia storica del Bolognese. Resoconto dalle antiche necropoli felsinee, in: Atti e memorie della Regia Deputazione di Storia patria per le province di Romagna 2 (1884), pp. 1–34. Sulle letture in chiave „razziale" delle descrizioni tacitiane dei germani, cfr. Luciano Canfora , La „Germania" di Tacito da Engels al nazismo, Napoli 1979, pp. 15–33. Bénédict-Augustin Morel , Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l'espèce humaine et des causes qui produisent ces variétés maladives, Paris 1857, p. 5. Cfr. Giuseppe Sergi , Le degenerazioni umane, Milano 1889. Sul concetto di degenerazione, che fu usato tra la seconda metà dell'Ottocento e la Grande guerra per descrivere la crisi della modernità e della civiltà occidentale, cfr. Georges-Paul-Henri Genil-Perrin , Histoire des origines et de l'évolution de l'idée de dégénérescence en médecine mentale, Paris 1913; Robert A. Nye , Crime, Madness and Politics in Modern France. The Medical Concept of National Decline, Princeton 1984; J. Edward Chamberlin /Sander L. Gilman (a cura di), Degeneration. The Dark Side of Progress, New York 1985; Daniel Pick , Volti della degenerazione. Una sindrome europea, 1848–1918, trad. it. di Sergio Minucci , Firenze 1999; Jean-Christophe Coffin , La transmission de la folie, 1850–1914, Paris 2003; Mauro Simonazzi , Degenerazionismo. Psichiatria, eugenetica e biopolitica, Milano 2013. Cfr. Antonello La Vergata , Lombroso e la degenerazione, in: Silvano Montaldo (a cura di), Cesare Lombroso. Gli scienziati e la nuova Italia, Bologna 2010, pp. 55–93. Sulla fortuna positivistica della metafora della società umana come organismo vivente, cfr. Pietro Rossi , La sociologia positivistica e il modello di società organica, in: Antonio Santucci (a cura di), Scienza e filosofia nella cultura positivistica, Milano 1982, pp. 15–37. Niceforo , La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. 66. Ibid., p. 31. Wong , Race and the Nation in Liberal Italy (vedi nota 1), p. 45. Cfr., su tutti, Salvadori , Il mito del buongoverno (vedi nota 1), in particolare il capitolo VI, L'interpretazione razzistica della inferiorità meridionale, pp. 184–205. Niceforo , La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. 107. Ibid., p. 109. Ibid., p. 204. Paolo Orano , La psicologia della Sardegna. Impressioni ed appunti, Roma 1896. Il minimo che si possa dire della vicenda intellettuale e politica di Orano è che fu travagliatissima: transitò dalla massoneria al repubblicanesimo, dal socialismo al nazionalismo. Dopo la Grande guerra, fu parlamentare per il Partito dei combattenti sardi; approdò infine al fascismo, contribuendo con i suoi scritti (su tutti: Gli ebrei in Italia, Roma 1937) alla campagna antisemita e razzista del regime. Dal 1935 fu addirittura nominato rettore dell'Università di Perugia. Sul legame istituito da Orano, fin dalle sue prime pubblicazioni, tra l'idea dell'inferiorità delle popolazioni del Sud e quella degli ebrei, cfr. Francesco Germinario , Latinità, antimeridionalismo e antisemitismo negli scritti giovanili di Paolo Orano (1895–1911), in: Burgio (a cura di), Nel nome della razza (vedi nota 1), pp. 105–114. Orano , La psicologia della Sardegna (vedi nota 29), pp. 19 e 17. Ibid., p. 19. Alfredo Niceforo , L'Italia barbara contemporanea. Studi e appunti, Palermo 1898. Ibid., p. 10. Il riferimento era all'articolo di Cesare Lombroso , L'Italia è unita, non unificata, in: Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale 17 (1887), pp. 144–148 (poi pubblicato in id., Troppo presto. Appunti al nuovo progetto di codice penale, Torino 1888, pp. 62–66). Nell'articolo, Lombroso lamentava l'impossibilità di giungere in Italia a un'uniformità legislativa e sosteneva che „dalla statistica criminale italiana di 20 anni, se una cosa risulta sicura è che la divisione per regioni e per grandi zone che sussiste per i dialetti, per la stampa, per la fisionomia, pei costumi, per la razza, insomma, in Italia, vive ancora più evidente quanto alla criminalità. Ricordinsi le grassazioni a guisa dei clan scozzesi o delle tribù arabe della Sardegna" (ibid., p. 145). Per la distinzione tra „civiltà a tipo di violenza" e „civiltà a tipo di frode", cfr. Guglielmo Ferrero , I fatti di Chiusa S. Michele, in: Augusto Guido Bianchi /Guglielmo Ferrero /Scipio Sighele , Il mondo criminale italiano, vol. 1: 1889–1892, prefazione di Cesare Lombroso , Milano 1893, pp. 277–315. Anche secondo Ferrero la Sardegna apparteneva alla „civiltà a tipo di violenza", insieme alla Corsica, al Montenegro, a Firenze e alle città italiane del Medioevo (ibid., p. 279). Sulla distinzione introdotta da Ferrero, cfr. Dino Mengozzi , Il giovane Ferrero e la „società a tipo di violenza", in: Lorella Cedroni (a cura di), Nuovi studi su Guglielmo Ferrero, Roma 1998, pp. 78–93. Sulle premesse storiche di questa distinzione, cfr. anche Francesco Benigno , La mala setta. Alle origini di mafia e camorra, 1859–1878, Torino 2015. Sulla differenza tra „criminalità evolutiva" e „criminalità atavica", cfr. Scipio Sighele , La delinquenza settaria. Appunti di sociologia, Milano 1897, pp. 16–19. Niceforo , L'Italia barbara contemporanea (vedi nota 32), p. 288. Ibid., p. 289. Ferri , Prefazione, in: Niceforo , La delinquenza in Sardegna (vedi nota 7), p. I. Ibid. Cesare Lombroso , Razza e criminalità, in: Corriere della Sera, 29–30 ottobre 1897. Guglielmo Ferrero , Barbari dell'Italia contemporanea, in: Il Secolo, 20–21 luglio 1897. Enrico Morselli /Sante De Sanctis , Giuseppe Musolino. Biografia di un bandito, Milano 1903, p. 196. Sul rapporto tra Niceforo e Colajanni, cfr. Jean-Yves Frétigné , Biographie intellectuelle d'un protagoniste de l'Italie libérale. Napoleone Colajanni (1847–1921). Essai sur la culture politique d'un sociologe et deputé sicilien à l'âge du positivisme (1860–1903), Roma 2002, pp. 717 sg. Cfr. Claudia Petraccone , Federalismo e autonomia dall'Unità d'Italia a oggi, Roma-Bari 1995. Napoleone Colajanni , La delinquenza in Sicilia e le sue cause, Palermo 1885, p. 30 (corsivo originale). Il libro raccoglieva alcuni articoli apparsi nell'agosto del 1885 sul „Giornale di Sicilia". Su Colajanni e la questione meridionale, cfr. S. Massimo Ganci , Profilo di Napoleone Colajanni dagli esordi al movimento dei Fasci dei lavoratori, in: id., L'Italia antimoderata. Radicali, repubblicani, socialisti e autonomisti dall'Unità a oggi, Parma 1968, pp. 166–170; Giovanna Angelini /Arturo Colombo /V. Paolo Gastaldi , Poteri e libertà. Autonomie e federalismo nel pensiero democratico italiano, Milano 2001, pp. 78–97; Elena Gaetana Faraci , „Settentrionali e Meridionali". Napoleone Colajanni e il dibattito parlamentare sul Mezzogiorno (dicembre 1901), in: Storia e Politica 10,2 (2018), pp. 315–330; ead., Napoleone Colajanni. Un intellettuale europeo, la politica e le istituzioni, Soveria Mannelli 2018. Napoleone Colajanni , Per la razza maledetta, Palermo-Roma 1898. Ibid., pp. 3 e 20. Ibid., pp. 4 e 33. Napoleone Colajanni , La sociologia criminale, 2 voll., Catania 1889. La teoria si trova esposta per la prima volta in Giuseppe Sergi , La stratificazione del carattere e la delinquenza, in: Rivista di filosofia scientifica 3 (1883), pp. 537–549. Essa ebbe un'influenza decisiva nel campo della psichiatria (con Eugenio Tanzi e Gaetano Riva, che la usarono per lo studio della paranoia), della psicologia sperimentale (con Sante De Sanctis), dell'antropologia criminale (con Lombroso, prima, e Mariano Luigi Patrizi, poi) e della psicologia delle folle (con Scipio Sighele e Pasquale Rossi). Colajanni , Per la razza maledetta (vedi nota 46), p. 25. Ibid., pp. 19 e 20. Ibid., p. 13. Alfredo Niceforo , Italiani del Nord e Italiani del Sud, Torino 1901, p. VIII (corsivo originale). Ibid., p. 149. Ibid., p. 117. Ibid., p. 241. Cfr. Alfredo Niceforo , Les classes pauvres. Recherches anthropologiques et sociales, Paris 1905; id., Forza e ricchezza. Studi sulla vita fisica ed economica delle classi sociali, Torino 1906; id., Ricerche sui contadini. Contributo allo studio antropologico ed economico delle classi povere, Palermo 1907; id., Antropologia delle classi povere, Milano 1908; id. , La cause de l'infériorité des caractères psycho-physiologique des classes inférieurs, in: Problems in Eugenics, vol. 1: Papers Communicated to the First International Eugenics Congress Held at the University of London. July 24th to 30th, 1912, London 1912, pp. 184–189. Sulla traiettoria intellettuale di Niceforo, cfr. Angelo Matteo Caglioti , Race, Statistics and Italian Eugenics. Alfredo Niceforo's Trajectory from Lombroso to Fascism (1876–1960), in: European History Quarterly 47,3 (2017), pp. 461–489. Roberto Michels , Saggi economico-statistici sulle classi popolari, Palermo 1913, pp. 40–43. Ibid., p. 42. Giuseppe Sergi , Attorno alla sociologia criminale, in: Rivista italiana di sociologia 3 (1897), pp. 353–356. Il libro recensito da Sergi era: G. Ciraolo Hamnet , Delitti femminili a Napoli. Studio di sociologia criminale, Milano 1896. Sergi , Attorno alla sociologia criminale (vedi nota 61), p. 355. Ibid. Le risposte furono poi pubblicate in volume: Antonio Renda (a cura di), La questione meridionale. Inchiesta, Palermo 1900. Sull'inchiesta, cfr. Giovanni Mastroianni , L'Inchiesta del „Pensiero contemporaneo" sulla questione meridionale, in: id. (a cura di), Cultura e società in Calabria fra l'Otto e il Novecento, Chiaravalle Centrale 1975, pp. 69–99. Renda (a cura di), La questione meridionale (vedi nota 64), p. 30. Ibid., p. 137. Ibid. Ibid., p. 138. Ibid., p. 142. Ibid., p. 143. Ibid., p. 142. Ibid., p. 31. Sempre nel 1898, era ristampato in forma notevolmente ampliata un volume sulla Calabria che Lombroso aveva pubblicato per la prima volta nel 1863, dopo la sua esperienza come ufficiale medico al seguito dell'esercito piemontese impegnato nella repressione del brigantaggio (Cesare Lombroso , In Calabria [1862–1897]. Studii con aggiunte del Dr. Giuseppe Pelaggi, Catania 1898). Nel pamphlet , Lombroso deplorava la situazione economica, sociale e civile della regione, lo sfruttamento del proletariato da parte delle classi benestanti, le disagiate condizioni igienico-sanitarie, l'influenza nefasta del governo borbonico, la debolezza dello Stato, l'incapacità e la disonestà dei nuovi funzionari piemontesi e l'alto tasso di criminalità. Nel libro non mancavano, tuttavia, alcune notazioni antropologiche sulla popolazione calabrese, caratterizzata secondo Lombroso da una mescolanza tra razze superiori e inferiori: da una parte, il tipo semitico, dolicocefalo, con il naso arcuato, dall'altra, il tipo camitico, brachicefalo, con il naso aquilino e di alta statura. Mentre l'influenza del tipo camitico era all'origine di quella „singolare finitezza di modi che tu trovi anche nel più ineducato colono, e che ti fa credere, direbbe Heine, di parlare a senatori Romani, vestiti alla villana" (ibid., p. 14), dal tipo semitico derivavano „la grande superstizione e la molta lascivia, e conseguenza di questa la poca stima della donna che vi cresce lontana da ogni rapporto sociale" (ibid., p. 22). Le considerazioni lombrosiane suscitarono numerose critiche tra gli intellettuali locali, che le ritennero denigratorie nei confronti dei calabresi. Renda (a cura di), La questione meridionale (vedi nota 64), pp. 77 e 79. Il richiamo era all'articolo di Giuseppe Sergi , Inglesi e Romani. Cause e parallelismo della loro grandezza, in: Nuova antologia 164 (1899), pp. 401–416. Renda (a cura di), La questione meridionale (vedi nota 64), pp. 82 e 83. Ibid., pp. 83 sg. Giuseppe Sergi , La decadenza delle nazioni latine, Torino 1900. Id., Usiologia ovvero scienza dell'essenza. Rinnovamento dell'antichissima filosofia italiana, Noto 1868 (ristampato a cura di Hervé A. Cavallera , Lecce 2002). Guglielmo Ferrero , L'Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Milano 1898. Il libro era dedicato a Cesare Lombroso. Su Ferrero, che fu uno dei pochi intellettuali italiani di levatura europea e addirittura internazionale tra fine Ottocento e inizio Novecento, cfr. Lorella Cedroni , Guglielmo Ferrero. Una biografia intellettuale, Roma 1994. Ferrero , L'Europa giovane (vedi nota 80), pp. 178 sg. Ibid., p. 205. Per la critica delle tesi di Sergi e Ferrero, cfr. Napoleone Colajanni , Latini e Anglosassoni. Razze inferiori e razze superiori, Napoli-Roma 1906. Sergi , La decadenza delle nazioni latine (vedi nota 78), p. 252. Ibid., p. 269. Ibid., p. 244. Ibid. Ibid., p. 247. Ibid. Ibid., p. 248. Ibid., pp. 252 e 253. Giuseppe Sergi , La guerra d'Africa, in: Rivista di sociologia 1–2 (1896), pp. 154–162. Al pari di Colajanni e Niceforo, Sergi fu un feroce avversario non solo della politica colonialistica incoraggiata da Crispi, ma anche della sua politica interna repressiva: su questi aspetti, cfr. i saggi raccolti in id., Fatti e pensieri di coltura e politica sociale, Milano 1906. Cfr. Giovanni Cerro , „Un terribile disastro umano". Gli eugenisti italiani di fronte alla Grande Guerra, in: id. (a cura di), L'eugenetica italiana e la Grande Guerra, Pisa 2017, pp. 5–27. Cfr. Elisabetta Cicciola /Renato Foschi , Giuseppe Sergi tra pensiero positivista e impegno politico, in: Physis. Rivista internazionale di storia della scienza 52,1–2 (2017), pp. 169–192. Cfr. Manlio Brigaglia , La Sardegna dall'età giolittiana al fascismo, in: Berlinguer/Mattone (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Sardegna (vedi nota 3), pp. 525–534; Giovanni Murgia , I moti sociali nella Sardegna giolittiana, in: Giannarita Mele /Claudio Natoli (a cura di), La Camera del Lavoro di Cagliari nel Novecento, Roma 2007, pp. 167–196. Girolamo Sotgiu , Storia della Sardegna dopo l'Unità, Roma-Bari 1986, p. 396. Giuseppe Sergi , La Sardegna. Note e comenti di un antropologo, Torino 1907. Id., Crani antichi della Sardegna, in: Atti della Società romana di antropologia 13 (1907), pp. 13–17. L'anno successivo Sergi confermò l'ipotesi dell'appartenenza dei sardi alla stirpe mediterranea fin dai tempi preistorici: „La Sardegna neolitica, prima delle immigrazioni della nuova stirpe a carattere cefalico uniforme, deve avere avuto una popolazione della stessa origine e dello stesso tipo di quella del continente italiano e, in generale, dell'Europa neolitica" (id., Europa. L'origine dei popoli europei e loro relazioni coi popoli d'Asia, d'Africa e d'Oceania, Torino 1908, p. 232). Id., La Sardegna (vedi nota 96), p. 67. Sull'originalità della lettura di Sergi, cfr. Luca Tedesco , L'antropologia positivista italiana e la questione sarda. La peculiarità della riflessione di Giuseppe Sergi, in: Giampaolo Atzei /Alessandra G. Orlandini Carcreff /Tiziana Manca (a cura di), Paolo Mantegazza. Dalle Americhe al Mediterraneo, Monaco 2014, pp. 181–196. Sergi , La Sardegna (vedi nota 96), p. 109. Questa vicinanza dei sardi al mondo naturale era stata già sottolineata nel 1869 da Paolo Mantegazza nel volume Profili e paesaggi della Sardegna (Milano 1869), pubblicato a seguito della sua esperienza come membro della commissione parlamentare d'inchiesta sulle condizioni economiche e morali della Sardegna, presieduta da Agostino Depretis e nota per non aver mai pubblicato una relazione finale sui suoi lavori. Anche secondo Mantegazza l'„inerzia" (ibid., p. 193) era uno dei problemi principali della popolazione sarda: si trattava di un'„antica consuetudine" (ibid., p. 195) che poteva essere vinta soltanto con il miglioramento dei sistemi educativi. Sulla commissione Depretis, cfr. Francesco Manconi (a cura di), Le inchieste parlamentari sulla Sardegna, vol. 1: L'inchiesta Depretis. Le relazioni, le petizioni e i memoriali della Sardegna, Cagliari 1984. Sergi , La Sardegna (vedi nota 96), p. 141. Ibid., p. 125. Ibid., p. 144. Ibid., p. 154. Ibid., p. 180. Ibid., p. 176 (corsivo originale). Ibid., p. 108. Ibid., p. 203. Ibid., p. 161. Ibid., p. 206. Giuseppe Sergi , Napoli malata, in: id., Fatti e pensieri di coltura e politica sociale (vedi nota 91), pp. 305–309. Ibid., p. 306. Ibid., p. 308. Ibid., p. 309. Su Napoli, cfr. sempre di Sergi , La rigenerazione di Napoli, in: id., Fatti e pensieri di coltura e politica sociale (vedi nota 91), pp. 312–316; id., Prefazione, in: Abele De Blasio , Nel paese della camorra (L'imbrecciata), Napoli 1901, pp. XI–XV. Angelo Taramelli , Recensione di Giuseppe Sergi, La Sardegna, in: Archivio storico sardo 3 (1907), p. 252. Anonimo , Recensione di Giuseppe Sergi, La Sardegna, in: Rivista d'Italia 10 (1907), p. 533. Francesco Coletti , Alcuni caratteri antropometrici dei Sardi e la questione della degenerazione della razza, in: Rivista italiana di sociologia 1 (1908), p. 59, nota 2. Napoleone Colajanni , Recensione di Giuseppe Sergi, La Sardegna, in: Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali 11 (15 maggio 1907), p. 252. Ibid., p. 253 (corsivo originale). Queste considerazioni si trovano espresse da Colajanni anche nella sua introduzione al volume di Luigi Camboni , La delinquenza della Sardegna, Sassari 1907. Antonio Gramsci , „Gli scopritori", in: Elisa Fubini (a cura di), Opere di Antonio Gramsci, vol. 10: Sotto la mole. 1916–1920, Torino 1971, pp. 148–150 (l'articolo era apparso originariamente sull'„Avanti" del 24 maggio 1916). Ibid., p. 149. Antonio Gramsci , Alcuni temi della quistione meridionale, in: Elisa Fubini (a cura di), Opere di Antonio Gramsci, vol. 12: La costruzione del partito comunista. 1923–1926, Torino 1971, p. 140 (il saggio fu scritto da Gramsci nell'ottobre del 1926, ma fu pubblicato per la prima volta dopo la sua morte nel gennaio 1930 su Lo Stato operaio 4,1, pp. 9–26). Cfr. anche Quaderno 19, § 24. Voce „Italian" in: Reports of the Immigration Commission, vol. 5: Dictionary of Races and Peoples, Washington 1911, pp. 81–85. Sergi era citato anche alla voce „Aryan" (ibid., p. 18) e alla voce „Semitic-Hamitic" (ibid., pp. 126 sg.). Su questi aspetti, cfr. Peter D'Agostino , Craniums, Criminals, and the „Cursed Race". Italian Anthropology in American Racial Thought, 1861–1924, in: Comparative Studies in Society and History 44,2 (2002), pp. 319–343; Donna R. Gabaccia , Razza, nazione, trattino. Italiani-americani e multiculturalismo americano. Una prospettiva comparata, in: Jennifer Guglielmo /Salvatore Salerno (a cura di), Gli italiani sono bianchi? Come l'America ha costruito la razza, trad. it. di Chiara Midolo , Milano 2006, pp. 61–78, in particolare pp. 73–75. Voce „Italian" (vedi nota 125), p. 82. Ibid. Ibid. Sulla varietà delle posizioni nell'antropologia lombrosiana, cfr. Liliosa Azara /Luca Tedesco (a cura di), La donna delinquente e la prostituta. L'eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiana, Roma 2019; Silvano Montaldo , Donne delinquenti. Il genere e la nascita della criminologia, Roma 2019. Cfr. David Forgacs , Margini d'Italia. L'esclusione sociale dall'Unità ad oggi, trad. it. di Laura Schettini , Roma-Bari 2015; Alberto Burgio , Critica della ragione razzista, Roma 2020; David Forgacs , Messaggi di sangue. La violenza nella storia d'Italia, Roma-Bari 2021. Sul razzismo italiano, e sui suoi rapporti con la cultura scientifica nazionale, le ricerche sono ormai numerose. Oltre ad alcuni testi già citati nelle note precedenti (in particolare nota 1), cfr. almeno Claudio Pogliano , L'ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo, Pisa 2005; Centro Furio Jesi, La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista. Catalogo della mostra, Bologna, Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio, 27 ottobre – 10 dicembre 1994, Bologna 1994; Carl Ipsen , Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell'Italia fascista, Bologna 1997; Giorgio Israel /Pietro Nastasi , Scienza e razza nell'Italia fascista, Bologna 1998; Roberto Maiocchi , Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze 1999; Aaron Gillette , Racial Theories in Fascist Italy, London 2002; Claudia Mantovani , Rigenerare la società. L'eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli 2004; Francesco Cassata , Molti, sani e forti. L'eugenetica in Italia, Torino 2006; Michele Nani , Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell'Italia di fine Ottocento, Roma 2006; Francesco Germinario , Costruire la razza nemica. La formazione dell'immaginario antisemita tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, Torino 2010; Marina Beer /Anna Foa /Isabella Iannuzzi (a cura di), Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, Roma 2010; Annalisa Capistro , Scienze e razzismo, in: Francesco Cassata /Claudio Pogliano (a cura di), Storia d'Italia. Annali 26: Scienze e cultura dell'Italia unita, Torino 2011, pp. 241–263; Alessandro Visani , Genere, identità e razzismo nell'Italia fascista, Roma 2012; Aurélien Aramini /Elena Bovo (a cura di), La pensée de la race en Italie. Du romantisme au fascisme, Besançon 2018; Salvatore Rigione , Sulle tracce di una mitografia italiana della razza nella rincorsa coloniale, Pisa 2020; Silvana Patriarca , Il colore della Repubblica. Figli della guerra e razzismo nell'Italia postfascista, trad. it. di Duccio Sacchi , Torino 2021. Mutuo questa espressione dal titolo del libro di Livio Sansone , La Galassia Lombroso, Roma-Bari 2022. L'infantilizzazione e la bestializzazione sono due delle categorie „razziali" individuate da Dienke Hondius in: Blackness in Western Europe. Racial Patterns of Paternalism and Exclusion, New Brunswick 2014.

By Giovanni Cerro

Reported by Author

Titel:
Una „razza mediterranea"?: Il dibattito antropologico sulla questione meridionale (1897–1907).
Autor/in / Beteiligte Person: Cerro, Giovanni
Link:
Zeitschrift: Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, Jg. 102 (2022-11-01), Heft 1, S. 386-416
Veröffentlichung: 2022
Medientyp: academicJournal
ISSN: 0079-9068 (print)
DOI: 10.1515/qufiab-2022-0018
Schlagwort:
  • ANTHROPOLOGY
  • NICEFORO, Alfredo
  • COLAJANNI, Napoleone, d. 1921
  • SERGI, Giuseppe
  • ETHNOLOGISTS
  • Subjects: ANTHROPOLOGY NICEFORO, Alfredo COLAJANNI, Napoleone, d. 1921 SERGI, Giuseppe ETHNOLOGISTS
Sonstiges:
  • Nachgewiesen in: DACH Information
  • Sprachen: English
  • Document Type: Article
  • Full Text Word Count: 15091

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